Luca Colombo – Caccia al morto

richard gerstl Self-Portrait-Laughing (1)

DAL TESTO

Funerali ne ho visti parecchi, il primo flashback nitido risale all’età di sei anni: corteo funebre della nonna, in febbraio. Aveva smesso di piovere da poco, io conducevo il mio piccolo ombrellino rosso da gran signore afflitto. In generale, parenti vari morti presto. Un funerale dietro l’altro. Dovetti aspettare gli otto anni perché mio padre mi concedesse di accompagnarlo a scegliere una bara. Era la volta dello zio Ottavio; non mi stava neanche simpatico, quindi la gioia fu doppia.

ORIGINI

Caccia al morto – Luca Tagliabue –  inedito
Richard Gerstl – Laughing Self Portrait – 1904

DUE PAROLE

Recensisco un inedito consegnatomi da Luca Tagliabue – pseudonimo di Luca Colombo – qui alle prese con il suo secondo romanzo. Trovo di grandissima utilità avere l’onore di leggere un (quasi) compaesano e (quasi) coscritto, specialmente per tutto quello che riguarda il paragone con la mia prima, anch’essa inedita, prova letteraria, il romanzetto 22 e 22. Tante le cose in comune, fin troppe, che nella sostanza, credo, riconducono poi ai seguenti capi sommari: un’immaturità artistica, un’innata passione per la letteratura ed un grande desiderio-bisogno formativo. Cercherò di sfruttare questi cardini per sollevare un personale esame di coscienza. Mi permetto dunque di dilungarmi più dell’abituale e persino di arrogarmi una libertà di critica, sebbene consapevole di quanto essa possa non risultare di gradimento all’autore.
La storia di “Caccia al morto” ruota intorno a Filippo, protagonista assoluto e proiezione dell’autore stesso, giovane filosofo irrealizzato, che trova lavoro presso l’azienda funebre del suo paese. Il romanzo si spegne con una poco incisiva retorica sul pregiudizio, un miscuglio di rifiuto sociale e senso di colpa interno. Ciò dà una significativa indicazione sul pre-assemblaggio (pre-concepimento) dell’opera. Proprio nel finale risiede il senso di smarrimento riconducibile al già citato desiderio formativo. Non sapendo chi siamo, risulta più facile non sapere ciò che vogliamo, ed accusare, superficialmente, la società. Non si hanno obiettivi, solo paure. La figura che meno spaventa nel romanzo è la morte. La sua costante presenza, o meglio, del suo significato simbolico, è un brillante esercizio di paragone con tutti i temi incontrati. Ciò conferisce continuità alla prosa, nonché vigoroso humor nero. Gli accadimenti, però, seppur ben arrangiati, non sembrano allacciarsi uno con l’altro. Danno piuttosto l’impressione di essere stati incastrati di atto in atto per giustificare il palcoscenico sul quale far recitare pensieri di portata più ampia. Tutto gravita intorno all’egocentrismo del protagonista. Purtroppo, per parer prettamente personale, questa è la pecca maggiore del romanzo. È d’altro canto anche quella più agilmente superabile. La sottile arte d’intreccio fra trama e riflessione, è pratica artigianale apprendibile con tempo e tanto esercizio. 22 e 22 soffre esattamente della stessa malattia. La piaga che ha colpito la nostra generazione e che ci vede, quotidianamente, allontanarci dalla praticità in favore dell’irresolutezza, secondo lo sdrucciolevole principio di importanza dell’individuo. Anche Tagliabue/Colombo fiuta il pericolo, consapevole quanto lo fossi io di fronte alla tastiera, riporta “E non è neppure detto che la pratica indefessa t’abbia trasformato in un vero scrittore, ovvero un narratore purosangue che è stato capace di sbarazzarsi di ogni buona intenzione. Forse resterai per tutta la vita uno pseudoscrittore – categoria a cui temo di appartenere-, cioè un messia metropolitano che si sente in dovere di insegnarti qualcosa, di propinarti una morale, che cade vittima dei suoi stessi scritti zeppi di turbamenti psichici e maleodoranti di frustrazioni ingarbugliate. Scrittori o pseudoscrittori, scriviamo perché siamo esibizionisti”.
Questa inconsistenza sfocia presto in un tentativo disperato di distinzione. Ecco che ogni autore, tramite la voce del proprio alter ego, cerca di auto gratificarsi od ergersi a “persona speciale”, mettendosi in luce come meglio gli compete. La figura dell’intellettuale incompreso tracima in citazioni e aneddoti piacevoli da leggere, ma gravati dall’altra faccia della medaglia, il volersi a tutti i costi elevare al fine di distinguersi dalla massa. Il libro ne è pieno, quasi ad indottrinamento del lettore. Potrebbero essere accenni a quel procedimento che porta ogni uomo da figlio a padre, nel goffo ed eterno tentativo di realizzarsi attraverso un mezzo qualsiasi. (Si noti infatti che Filippo non ha concluso gli studi, diventa pupillo del figlio del De Bernini, e richiama spesso giustificativi –sessuali o meno- sulle sue incompetenze). Le pagine trasudano un desiderio di accettazione del protagonista nei confronti del sistema. La grossa difficoltà della nostra generazione (indubbiamente anche di quelle a venire) è proprio questa, il complicato passaggio di responsabilità dell’affermarsi in un insieme più grande. Ci reputiamo incompresi e, per la stessa ragione, incolpiamo il prossimo di non capire quanto siamo speciali. Il paragrafo con l’avventura erotica di Filippo con la ragazza del funerale ne è l’esempio supremo. Inutile ai fini narrativi (sembra il classico stridore da fucile di Checov, volutamente messo in scena senza conseguenze) non sviluppa conseguenze immediate, né a lungo termine. È, probabilmente, il bimbo che chiama la mamma. Leggendolo, mi è sembrato di trovare nient’altro che giustificazione e volontario passaggio per l’autorealizzazione, con il ritorno di fiamma per interposta persona, alcune pagine dopo, con l’avvenente collega. L’impaccio, guada a caso con una donna più adulta, questa volta fallimentare, che tanto richiama il giovane Fante di “Chiedi alla polvere” nella sua tristissima scena di rifiuto alla prostituta (dea/patria/madre/donna/amica/società).
“Caccia al morto” è un romanzo intimo ed utilissimo, pungente e assai ironico, però troppo personale. Ecco l’enorme somiglianza con 22 e 22. Non il becchino, non lo stile spavaldo, non il nozionismo, né il virtuosismo letterario, ma l’utilizzo dello scritto come acerbo sfogo esistenzialista. Il protagonismo e l’utilità artistica dovrebbero abbracciare uno spettro più ampio e complesso di analisi emotiva. Per questo colloco la lettura nella sfera formativa. Accostato alla grandiosa irriverenza verso la morte, propria delle persone più sensibili e profonde, si lega quel capriccio realizzativo proprio di ogni adolescenza artistica e sociale.

 

INFO UTILI

Pag. 161.