Bret Easton Ellis – American Psycho

Niente riusciva a darmi pace. Ogni cosa finì per venirmi mortalmente a noia: l’alba, il tramonto, la vita degli eroi, l’amore, la guerra, le scoperte che gli uni fanno sugli altri. L’unica cosa che non mi annoiasse era, ovviamente, constatare quanti soldi guadagnasse Tim Price; e tuttavia, tant’era ovvio, mi annoiava anche questo. In me non albergava alcun sentimento chiaro e definito. Provavo solo, a fasi alterne, una smodata avidità e un totale disgusto. Avevo tutte le caratteristiche di un essere umano – carne, ossa, sangue, pelle, capelli – ma la mia spersonalizzazione era tanto intensa, era penetrata così in profondo, che non esisteva più in me la normale capacità di provare compassione. Questa era stata sradicata, cancellata del tutto. Io stavo semplicemente imitando la realtà; avevo una vaga somiglianza con un essere umano; solo un’area limitata del mio cervello funzionava ancora. Qualcosa di orribile stava accadendo, ma non riuscivo a capirne il motivo; non riuscivo neppure a capire di che cosa effettivamente si trattasse. L’unica cosa che avesse il potere di calmarmi era il tintinnio dei cubetti di ghiaccio dentro un bicchiere di whisky.

DUE PAROLE

Patrick Bateman è uno yuppie in carriera nel mondo della rampante Wall Street degli anni 90 (forse poco prima). Il romanzo potrebbe essere così riassunto: Oggi indosso un vestito Armani, mi sono allenato in palestra due ore, bevo acqua Perrier, mi drogo e alcolizzo in eccesso, ammazzo serialmente persone”. Lo dico perché il testo continua a riciclarsi ed arricciarsi con caparbietà su questa elementare trama. Bret Easton Ellis vuole farci capire a tutti i costi (e quando dico a tutti i costi intendo quasi 600 pagine di prosa) che non si scappa dalla semplicità delle superficialità descritta. American Psycho è un circolo vizioso senza fine, avrebbe potuto continuare per mille pagine ancora, senza riuscire a cambiare di una virgola la routine mondana che torna ad invadere la vita del protagonista. Nella letteratura precedente, l’autore pesca, a mio avviso, da Clockwork Orange, l’assolutismo del protagonista. Per molte volte, infatti, il romanzo sembra deviare verso una spiegazione, verso una speranza, verso una trama differente. Ma con frustrante costanza si torna sempre al punto di partenza: i vestiti, i ristoranti, le droghe, il sesso, il lavoro, le etichette. Il gergo (ho letto una traduzione italiana che non so valutare a pieno, ma mi immagino ricalchi l’inglese originale) si ostina su brand, nomi, marche e griffe, inserendo qua e là sprazzi di gergo moderno, di nicchia (qui, oltre alla totalità dell’efferatezza, l’altro vago richiamo al protagonista di Burgess). Patrick Bateman è un anti pensatore, è l’anti pensiero per eccellenza. Solo istinti primordiali e superficiali. Una superficialità piatta e obnubilante (lo dice bene in un passaggio chiave): “c’è un’idea di Patrick Bateman, una sorta di astrazione, ma non esiste un vero e proprio “me”. C’è soltanto qualcosa di illusorio, al mio posto, un’entità che è anche possibile toccare con mano, sennonché io non ci sono. Puoi pure sentire la mia carne a contatto con la tua, e credere che i nostri stili di vita siano comparabili, ma io semplicemente non ci sono. Per me, è difficile avere un senso, a qualsiasi livello. Io sono un’invenzione, un’aberrazione. Sono un essere umano incoerente. La mia personalità è appena abbozzata, informe; solo la mia crudeltà è persistente e alligna nel profondo. La mia coscienza, la mia pietà, le mie speranze, sono scomparse molto tempo fa (probabilmente ad Harvard), se mai sono esistite. Non esistono più frontiere da varcare. Sono ormai al di là di ogni cosa. Sono assolutamente indifferente al male che ho fatto. Non me ne importa niente di ciò che ho in comune con i pazzi e gli energumeni, con i viziosi e i maligni. Tuttavia mi tengo ancora saldo a una singola, squallida verità: nessuno è al sicuro, nessuno si salva, non c’è redenzione per nessuno. Comunque, non mi si può biasimare. Si presume che qualsiasi modello di comportamento umano abbia una sua validità. Il male sta in quello che sei? O in quello che fai? La mia pena è costante, acuta, e io non spero in un mondo migliore, per alcuno. Anzi, voglio che la mia pena sia inflitta anche ad altri. Ma anche dopo aver ammesso questo (e io l’ho ammesso innumerevoli volte, pressoché in ogni atto che ho commesso), anche dopo essermi trovato a faccia a faccia con queste verità, non avviene la catarsi. Non acquisto una conoscenza più profonda di me stesso. Nessuna nuova comprensione si ricava da ciò che racconto. Non avevo, non ho nessun motivo per raccontarvi tutto questo. Questa mia confessione non significa assolutamente nulla…”. Nuovi valori del nuovo che emerge, il nulla totale. L’anima del personaggio è tanto empia quanto il nozionismo espresso per le etichette di acque minerali. Droga e alcool patinano quel senso di vuoto. Gli omicidi (eccesso massimo di trascendenza umana) idem. La combriccola di simili che circonda Bateman è piena di empiezza anch’essa. Non è un caso che, frequentissimamente, un personaggio, un nome, venga scambiato per quello di un altro. Il mondo frequentato da Bateman è fatto da repliche identiche, interscambiabili l’una con l’altra. Vi è, a tutti gli effetti, un tentativo di scomparsa dell’io. Degno di nota il tentativo di evacuazione da questo incubo, quando va in scena la sparatoria fra Bateman e i poliziotti. Sembra esserci un twist, un motivo. E puntualmente si ricomincia dal capitolo successivo, da Harry’s, come se nulla fosse. È così anche per altre scene, con la segretaria Jean (l’unica a provare dei sentimenti umani), con l’investigatore (seppure sia un feticcio anche esso), con la madre, con il fratello. Bateman sembra per pochi secondi tornare ad essere umano, ma ciò non succede mai. Il taglio cinematografico sottolinea la superficialità e la trasparenza del racconto. American Psycho è un manifesto riuscitissimo di un particolare spaccato della società (una società che idolatrava Trump e che, anni dopo, proprio nel momento in cui scrivo, è arrivata ad averlo guarda caso come presidente). Un lunga e tortuosa tortura che maltratta il lettore per pagine e pagine. Un romanzo tanto noioso quanto riuscito nella sua geniale malvagità.