David Foster Wallace – Una cosa divertente che non farò mai più

In queste crociere extra-lusso. di massa c’è qualcosa di insopportabilmente triste. Come la maggior parte delle cose insopportabilmente tristi, sembra che abbia cause inafferrabili e complicate ed effetti semplicissimi: a bordo della Nadir — soprattutto la notte, quando il divertimento organizzato, le rassicurazioni e il rumore dell’allegria cessavano — io mi sentivo disperato. Ormai è una parola abusata e banale, disperato, ma è una parola seria, e la sto usando seriamente. Per me indica una semplice combinazione — uno strano desiderio di morte, mescolato a un disarmante senso di piccolezza e futilità che si presenta come paura della morte. Forse si avvicina a quello che la gente chiama terrore o angoscia. Ma non è neanche questo. È più come avere il desiderio di morire per sfuggire alla sensazione insopportabile di prendere coscienza di quanto si è piccoli e deboli ed egoisti e destinati senza alcun dubbio alla morte. E viene voglia di buttarsi giù dalla nave.

DUE PAROLE

“A supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again”, titolo originale che declina una leggera differenza dalla meno pungente traduzione in lingua italiana -proprio per la mancanza di quel preciso “supposedly”- è un breve e divertentissimo pamphlet che distrugge la classe benestante americana. David Foster Wallace viene invitato in crociera di lusso, una gita caraibica sulla 7NC “Nadir”, e descrive ciò che vede attorno a sé. Il risultato è un diario di non-viaggio. L’antitesi di ogni resoconto avventuriero, una non-vacanza dai risvolti introspettivi e deprimenti. Un quadro dai colori forti e accesi, contrapposto alla cupa e profonda visione pessimista dell’autore, che –nonostante scriva per richiesta della compagnia stessa- non esita a dipingere il tutto con la sua tristissima ed intellettuale visione del mondo. Cosa può trarne il lettore? Un originalissimo passaggio nell’essenza umana. Se l’uomo cresce per evolversi ed affronta le insidie della vita e dell’ambiente per sviluppare la propria esistenza, questo non-viaggio porta a riflessioni uterine, a una non-partenza dalla embrionale concezione anestetizzata del divertimento. L’obbligo alla spensieratezza, al divertimento, si traduce presto in un nirvana, in un funesto oppiaceo della coscienza. Il solo Wallace sembra accorgersene (forse anche l’odiato cineamatore che spesso intravede sul ponte), grazie all’occhio clinico dell’osservatore acculturato. Non c’è superiorità in questa visione, però. L’autore riesce a calarsi nelle parti dell’antropologo senza prendere le solite distanze scientifiche. Egli sa di essere uomo, e spesso si abbandona alla tentazione. Anzi, finirà, fra tutti, ad essere il più pigro e sedentario di tutti. Il viaggio è insomma un lento oscillare, paritetico a quello della nave, fra la vita e la morte, fra il sogno e il son desto. “Una cosa divertente che non farò mai più” è un inno alla vita cantato dall’inferno del lusso dell’esagerazione e dell’abbondanza. È una riflessione su come la nostra società tenti di stigmatizzare questa breve esperienza terrena, quella che Wallace chiama “decadenza”, con una tanto pacchiana quanto brutale e sgraziata espressione di forza. Un gesto scaramantico, tipico degli esseri deboli e scempi quali spesso noi siamo.