Day 01 – Bucarest / Satu Mare

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Prima di iniziare a raccontare qualsiasi viaggio sarebbe opportuno porsi due semplici domande. La prima, il perché scrivere, da accompagnare ad una seconda ancora più insidiosa, il perché viaggiare. Difficile rispondere con precisione ad entrambe; ancor più difficile evitare ogni forma di ipocrisia nell’averle formulate. Una volta incontrate, l’onere di redarre un diario non può che farsi insopportabile. Sotto la mole di informazioni che quotidianamente ci avvolge, soltanto uno stupido non si accorgerebbe di rincorrere, scrivendo, l’eco del vuoto circostante. Ma gli stupidi si sa son duri d’orecchie, e in fondo questi rimangono dubbi sensati soltanto qualora ci si ponga l’obiettivo di essere ascoltati. Non è il nostro caso. Non è convincendo che vogliamo raccontare. Il puro scrivere fa parte di una sfera molto più personale e delicata, una sfera che abbraccia la fantasia e strizza l’occhio alla memoria. Ogni racconto serve, prima ancora che al branco di invisibili ed infiniti lettori dietro la pagina, allo scrittore stesso. E magari ai suoi compagni di viaggio. È un gesto egoista, ed è proprio per questo che ho deciso di risolvermi a buttare nero su bianco, per la quarta volta, l’incrocio fra i pensieri e le strade del nostro andare.
Con il dominio dei mezzi tecnologici, si è diffusa presso ognuno di noi la convinzione di esistere soltanto se immortalati, descritti o menzionati. C’è talmente tanta paura nel non lasciare tracce di se stessi da dover cercare continua conferma in orologi, autoscatti, posizionamenti satellitari, gradimenti o messaggi. C’è calcolo, metodicità, estremizzazione della percezione di solitudine. Sistematica distruzione di già fragili certezze. Enumerazione degli affetti. Ahimè, ne soffro anch’io. Non ne sono certo immune. Con il potere delle parola mi piacerebbe però spostare il confine che circonda queste angosce in un spazio meno consono alla precisione: quello evocativo. Provando a dare una prima risposta, lo scrivere diverrebbe dunque una splendida scusa con la quale piegare le sbarre di una prigione esistenziale. Una scusa soffice e temperata, forse bugiarda, niente scientifica. Sono ben consapevole di pagarne in arroganza (rendendo speciale una cosa che speciale non è) eppur temo sia necessario prendersi questo rischio se davvero si vuol dare valida risposta al secondo quesito. Cosa significa viaggiare?
Viaggiare è la sintesi estrema della nostra paura più grande: sentirsi soli. Provando per un attimo a scavare nel senso di abbandono che ci coglie nel momento in cui lasciamo un ambiente familiare, si percepirà tra gli strati sottostanti quel senso di desolazione dettato dalla scoperta. È un ritorno alle origini, è tornare piccoli uomini, o più precisamente grandi sprovveduti. Scoprire, in prima istanza, è un gesto puramente individualista, assai infantile. Dietro all’esaltazione, dietro l’euforia, dietro il bagliore o al fascino dell’avventura suona, cupo ed immutabile, il canto della solitudine. Poco importa se si viaggi accompagnati o meno, non ci è, né mai ci sarà dato, vivere un’emozione all’infuori della singolarità. La realtà viene sempre percepita individualmente. E solo gli adulti arrivano a comprenderne i delicati meccanismi, raffinando, non a caso, l’arte della bugia: unico compromesso conveniente ai fini del dialogo in una società. Va da sé che un senso così forte di paura misto a novità generi una percezione (totalmente fittizia) di libertà. E’ facile realizzare come tutto ciò non sia che una banale conseguenza. La libertà infatti è data, come del resto la paura e l’euforia, dalla mancanza di conoscenza. Mai, mai in vita mia, mi sono sentito “liberato” dopo una scoperta. Ne è esempio perfetto la letteratura, ingombrante ostacolo in termini di spensieratezza. Comprendere comporta responsabilità. Ma allora, ancora, perché viaggiare? Perché mentirci per sentirsi liberi? Beh, per allontanarci dal concetto che abbiamo di noi stessi. Per distruggersi e ricostruirsi, per ripensarsi esseri viventi capaci di nuove connessioni, di nuove paure, ma soprattutto, di vecchie emozioni. Con il processo di scoperta scopriamo il mondo esterno, con il viaggio, come in uno specchio, per differenza, possiamo scoprire noi stessi. È osservando gli altri pianeti che gli astronomi scoprirono forma e moto della terra. Così torniamo ad essere il centro dell’universo di una vita che ormai ci ha avvolto e annichilito. E’ una lotta, è una guerra interiore. E come ogni buon conflitto, ormai, manca solo il pretesto per farlo scoppiare. Il nostro si chiama Romania, durerà tre settimane, e ha l’origine di tutte le altre nostre scelte d’itinerario, la pura casualità. Correremo tra i Carpazi e la Transilvania. Iniziamo dunque. I bambini sono esseri impazienti.