Echmiadzin 24 Agosto

C’è una sola cosa che può spingere le carni e le pareti ad una dimensione insopportabile e questa cosa è il vuoto. La peculiarità dei monasteri armeni è proprio questa, l’assenza combinata all’austerità del liscio senso della pietra. Abituati come siamo alle fastose navate delle nostre chiese europee rimaniamo sempre stupiti dalla semplicità con cui i monaci e i praticanti armeni usavano costruire i loro luoghi di culto. Pietra, pietra dura e incastrata, pietra al pavimento, pietra alla vista, pietra alla polvere. Gli unici spazi occupati in questi scuri edifici sono un paio di piccoli porta candele in ferro battuto, una dozzina di panche in legno e la bibbia, con il suo leggio protetto da qualche icona dorata. Niente di più. E’ facile dunque, dopo tutta questa successione di visite, rimanere leggermente spiazzati nel visitare Echmiadzin, che della religione Armena è la sede per eccellenza, una specie di Mecca o Vaticano. La raggiungiamo comodi vista la sua relativamente breve distanza da Yerevan, e notiamo qualcosa di nuovo. L’ingresso sembra un campus universitario. All’interno vecchi edifici si scontrano con nuove costruzioni futuristiche, monumenti squadrati e rigidi per concezione, complessi architettonici articolati e monasteri dalle più classiche linee. La corte al suo interno è pacifica e rilassante. Comitive di turisti si mescolano a gruppi di fedeli, e noi con loro. Ci aggreghiamo ad un gruppo di italiani per sentire la guida lamentarsi dell’irresponsabilità degli azeri musulmani. Fa caldo, caldissimo. Cerchiamo riparo nella chiesa principale e io mi siedo su una panchina in prossimità delle candele. La ragazza di fronte a me osserva il santo sopra la mia testa poi estrae due bastoncini di cera e ne fonde la sommità, facendone fuoriuscire uno stoppino. Chiude gli occhi, accende la seconda. Chiude gli occhi e, con pazienza devota, attacca piano piano una candela all’altra saldandole assieme. Vorrei chiederle se quell’unione inscindibile corrisponda a una persona a lei cara, a un amore o al sogno della sua vita, ma non ne ho il coraggio e lei prende e se ne va. Non appena scompare, sopraggiunge dall’oscurità un ometto con uno scossale blu, probabilmente un sagrestano. Studia le candele per una decina di minuti e poi comincia a spostarle come pianticelle dal miscuglio di acqua e cera dove sono conficcate. le estirpa, ne controlla la solidità, le sistema in zone del candelario a lui più consone. Pulisce anche, quelle spente. Raschia il fondo e recupera tutti quei desideri morti, quelle persone annegate, quei pensieri spenti, quei santi senza ossigeno e stoppa. Lo scruto e mi affascina. Chissà se ha la consapevolezza di maneggiare ogni giorno con le preghiere della gente, con i loro sogni, con le loro speranze. Dalla perizia e dall’insensibilità che mostra sembrerebbe proprio di no. Però in fondo qualsiasi professione, pensate al chirurgo o al becchino o alla prostituta, arriva ad alienare dalle emozioni per favorire la professionalità. Intanto il Mattia Leonardi e la nuvoletta del Matteo Angelino son venuti a cercarmi. Dobbiamo andare a Sardarapat, una mezz’oretta più in là, a visitare il monumento ai caduti della prima repubblica armena e mi faccio trascinare fuori. Si avviano, ma prima di seguirli torno a controllare. E sì, le due candele della ragazza erano ancora fuse insieme e bruciavano la stessa fiamma.

20130824-140703.jpg

20130824-164416.jpg

20130824-165837.jpg