Giuseppe Pontiggia – Nati due volte

Che cosa è normale? Niente. Chi è normale? Nessuno. Quando si è feriti dalla diversità, la prima reazione non è di accettarla, ma di negarla. E lo si fa cominciando a negare la normalità. La normalità non esiste. Il lessico che la riguarda diventa a un tratto reticente, ammiccante, vagamente sarcastico. Si usano, nel linguaggio orale, i segni di quello scritto: “I normali, tra virgolette”. Oppure: “I cosiddetti normali”. La normalità – sottoposta ad analisi aggressive non meno che la diversità – rivela incrinature, crepe, deficienze, ritardi funzionali, intermittenze, anomalie. Tutto diventa eccezione e il bisogno della norma, allontanato dalla porta, si riaffaccia ancora più temibile alla finestra. Si finisce così per rafforzarlo, come un virus reso invulnerabile dalle cure per sopprimerlo. Non è negando le differenze che lo si combatte, ma modificando l’immagine della norma. Quando Einstein, alla domanda del passaporto, risponde “razza umana”, non ignora le differenze, le omette in un orizzonte più ampio, che le include e le supera. E’ questo il paesaggio che si deve aprire: sia a chi fa della differenza una discriminazione, sia a chi, per evitare una discriminazione, nega la differenza. Istituto d’Arte.

DUE PAROLE

“Nati due volte”, coloro che fanno la fatica di dover imparare di nuovo le cose naturali, banali, che riescono alle persone “normali”. Chi nasce due volte è come se vivesse due vite, entrambe faticose e ardue. Chi nasce due volte porta un peso invisibile agli altri. Pontiggia è riuscito a mostrarcelo a renderci complici. Questo Romanzo è un’ode al coraggio di queste persone e alla lealtà intellettuale, culturale e morale dei loro genitori. L’autore si immedesima nel padre di Paolo, un ragazzo affetto da una grave disabilità causata al momento del parto per cocciutaggine del ginecologo curante. Il testo si sviluppa in una serie di immagini (Frigerio, il padre co protagonista, è un insegnante di arte appassionato di fotografia) e il testo procede per diapositive. Dalla nascita alla pubertà del ragazzo, nelle occasioni cruciali o incorniciabili di una vita volta alla sofferenza e al sacrificio di un’intera famiglia che fatica a vincere la sfida più difficile: accettare. Tutti i partecipanti sono messi sullo stesso livello, anzi, proprio come spesso accade quando ci confrontiamo con la disabilità, è caratteristica dei non disabili vivere meschinamente questa situazione. La diversità è usata sottilmente come metro di paragone, per questo il romanzo, oltre che essere un puro e brillante esempio di scrittura e portavoce di una categoria di persone e di situazioni, è anche un bellissimo testo sul mondo dell’insegnamento. Si parla di scuola (“Probabilmente avrebbe avuto orrore a rispecchiarsi in un suo simile, prova che la vita gli aveva risparmiato. “Nove mesi per fare un bambino” gli rispondevo con deludente monotonia. “E la scuola dura nove mesi. Vedremo alla fine chi avrà ragione.“), ma soprattutto di educazione nel senso più ampio del termine. Riconoscere la disparità di partenza degli individui è caratteristica imprescindibile per riconoscerne l’indipendenza e il valore stesso. Una lezione immensa. Per me, genitore, ogni pagina offre motivo di riflessione. Un passaggio fra i tanti: “Spesso ho notato nel suo sguardo qualcosa di diverso dalla insofferenza, una atroce noia dissimulata dalla pazienza. Se finalmente in vacanza si diverte con il suo gruppo di volontari, dove lo accettano con allegria, senza volerlo cambiare, dobbiamo chiederci il perché? L’imperativo occulto dell’educatore, secondo Droysen, viene compendiato da poche, silenziose, concilianti parole: “Tu devi essere come io ti voglio, perché solo così io posso avere un rapporto con te”. C’è da stupirsi che Paolo sia felice quando non viene più educato?”
E ricordo con piacere una bellissima riflessione di Cacciari sul senso di Educare e Insegnare. Educare, da educere, estratte fuori, il valorizzare al massimo l’animo e l’anima del pupillo. Insegnare, invece, così invasivo, così arrogante.
Insomma, Pontiggia ci dona un testo prezioso, da cullare e ricordare negli anni che mi accompagneranno all’educazione dei miei figli, tenendo sempre presente che ogni essere ha una sua dignità. Che i figli sono sì proiezioni dei genitori, debbono forse anche esserlo, ma rimangono pur sempre individui autonomi, a noi legati ma pur sempre indipendenti. “Altre volte ho provato a chiudere un attimo gli occhi e a riaprirli. Chi è quel ragazzo che cammina oscillando lungo il muro? Lo vedo per la prima volta, è un disabile. Penso a quella che sarebbe stata la mia vita senza di lui. No, non ci riesco. Possiamo immaginare tante vite, ma non rinunciare alla nostra.”