Graham Greene – Il potere e la gloria

Non sono poi molti i peccati che un uomo può commettere. Ubriachezza, adulterio, atti impuri: il prete era rimasto ad ascoltare, seduto su una sedia a dondolo nel box di un cavallo, con il sapore dell’acquavite in bocca, evitando di guardare in faccia il fedele inginocchiato al suo fianco. Gli altri aspettavano in ginocchio, in un box vuoto. Negli ultimi anni, le scuderie di Lehr si erano spopolate; gli era rimasto soltanto un vecchio cavallo, che soffiava come un mantice nel buio, mentre i peccati venivano fuori a singhiozzo. «Quante volte?» «Dodici, padre, o forse di più.» E il cavallo soffiava. È incredibile il senso di innocenza che accompagna il peccato: solo gli uomini duri e consapevoli, e i santi, ne vanno esenti. Quella gente usciva dalla stalla con la coscienza pulita; il prete era l’unico che non si fosse pentito, che non fosse stato confessato e assolto. Avrebbe voluto dire a quell’uomo: “L’amore non è peccato, ma dovrebbe essere gioioso e aperto: diventa peccato quando è segreto, infelice… E allora può essere la disgrazia più grande dopo la perdita di Dio, anzi è la perdita stessa di Dio. Non hai bisogno di penitenze, figliolo, hai già sofferto abbastanza”. E a quell’altro: “La lussuria non è il peccato più grave. Dobbiamo evitarla soltanto perché da un giorno all’altro, da un momento all’altro, può trasformarsi in amore. E quando amiamo il nostro peccato, allora sì siamo dannati”. Ma l’abitudine al confessionale si era fatta valere di nuovo: era come ritrovarsi nella piccola soffocante scatola di legno, simile a una bara, nella quale gli uomini seppelliscono con il loro prete la propria impurità. Si era messo a recitare meccanicamente: «Peccato mortale… pericolo… forza di volontà», come se quelle parole avessero senso. E ancora: «Recita tre Pater noster e tre Ave Maria». Aveva ripetuto stancamente: «Ubriacarsi è soltanto il principio…». Nemmeno contro questo peccato gli sembrava di avere da proporre alcun insegnamento valido, a meno che non lo fosse la sua stessa persona che puzzava di acquavite nella stalla. Aveva impartito le penitenze, frettolosamente, severamente, meccanicamente. Il fedele usciva dalla stalla dicendo: «Un cattivo prete», senza avere provato alcun incoraggiamento, alcun interessamento… A una donna disse: «Queste leggi sono state fatte per il bene dell’uomo. La Chiesa non pretende… se non ce la fate a digiunare, allora mangiate, punto e basta». La vecchia non la finiva più di blaterare, mentre gli altri penitenti si agitavano irrequieti nel box accanto e il cavallo nitriva; blaterava di digiuni interrotti, di preghiere serali abbreviate. Tutt’a un tratto, senza preavviso, con uno strano senso di nostalgia di casa, al prete tornarono in mente gli ostaggi nel cortile della prigione, in fila per lavarsi, che avevano evitato di guardarlo: gli tornarono in mente la sofferenza e la sopportazione che si vedevano ovunque dall’altra parte delle montagne. Allora esplose: «Perché non si confessa come si deve? A me non interessa quanto pesce mangia o se ha sonno la sera… si faccia tornare in mente i veri peccati». «Ma io sono una brava cattolica, padre» si era messa a squittire la vecchia, sbalordita. «E allora che ci fa qui, a portare via il posto ai cattivi? Non ama dunque nessun altro, oltre a se stessa?» «Amo Dio, padre» disse la donna con sussiego. Il prete le lanciò una rapida occhiata alla luce della candela posata per terra: i vecchi occhi duri, di uva passa, sotto lo scialle nero: un’altra dell’esercito dei pii, come lui stesso. «Che ne sa lei? Amare Dio non è diverso dall’amare un uomo, o un bambino. È avere voglia di stare con Lui, di esserGli vicino.» Fece un gesto desolato con le mani: «È cercare di proteggerLo da noi stessi».

 

DUE PAROLE

“Il potere e la gloria” è la cosa più vicina alla sublime rappresentazione della “profanità” del Cristo del Caravaggio che abbia mai letto. Il romanzo riesce a sollevare alcuni importanti temi della cristianità (e della fede tutta) con una blasfemia latente, superiore, colta e raffinata, con un gusto sopraffino e con un’arte del dialogo pari a pochi. La storia è ambientata in Messico intorno agli anni quaranta. Un prete alcolizzato fugge dai suoi inseguitori forcaioli che vogliono catturarlo e giustiziarlo per tradimento. Una nota alla rappresentazione del prete. Anni fa, dopo aver letto Arancia meccanica, che guarda caso si interroga anch’esso sul libero arbitrio, lessi come e perché Burgess decise di rendere Alex, il protagonista del libro, così cattivo e violento. Voleva che fosse chiaro e insidacabile come la malvagità appartenesse al ragazzo, senza lasciare ombre al dubbio. Allo stesso modo, Green, non indugia sull’origine peccatrice del prete. Nella infinita e rocambolesca fuga il passato riaffora con costanza mostrando al lettore la sua natura sporca e profana, così densa di esperienze (quivi il taglio caravaggesco di un ritratto che accoppia la santità alla realtà popolare più negletta). Quasi giunto alla salvezza oltre al confine, l’anti-eroe decice, per l’ennesima volta, di non seguire la decisione più ovvia, quella imposta dalla morale, bensì quella suggerita dall’orgoglio e dalla stolidità umana (si veda acnche il libero arbitrio). L’epopea, che si conclude quindi con la fucilazione (e relativa martirizzazione) del prete, è un’Odissea verso il mistero religioso, vero il ritorno alla non esistenza. Non è assente il piano di lettura socio-politico del testo con l’ossessiva caccia alle streghe protratta dal tenente e dallo jefe a favore della loro ideologia: l’utopia dell’imposizione di un pensiero unico, dell’annichilimento della libertà personale a favore della collettività. (la caccia al prete costa vittime innocenti fra gli stessi inseguitori ed civili innocenti) così come a dire che un’idelogia dominante porta in nuce contraddizione e soprusi agli stessi appartententi alla causa.
Un romanzo completo, un vero capolavoro.

 

INFO UTILI

4 ore di lettura circa
Edizioni Oscar mondadori, classici moderni. ISBN 9788804508601
in copertina, Francisco Goya