Italo Calvino – Il barone rampante

Come dici? – fece lui, che continuava a restarci male ogni volta. –
Dico: io posso salire nel tuo territorio e sono un’ospite sacra, va bene? Entro ed esco quando voglio. Tu invece sei sacro e inviolabile finché sei sugli alberi, nel tuo territorio, ma appena tocchi il suolo del mio giardino diventi mio schiavo e vieni incatenato. – No, io non scendo nel tuo giardino e nemmeno nel mio. Per me è tutto territorio nemico ugualmente. Tu verrai su con me, e verranno i tuoi amici che rubano la frutta, forse anche mio fratello Biagio, sebbene sia un po’ vigliacco, e faremo un esercito tutto sugli alberi e ridurremo alla ragione la terra e i suoi abitanti. – No, no, niente di tutto questo. Lascia che ti spieghi come stanno le cose. Tu hai la signoria degli alberi, va bene? ma se tocchi una volta terra con un piede, perdi tutto il tuo regno e resti l’ultimo degli schiavi. Hai capito? Anche se ti si spezza un ramo e caschi, tutto perduto! – Io non sono mai caduto da un albero in vita mia! – Certo, ma se caschi, se caschi diventi cenere e il vento ti porta via. – Tutte storie. Io non vado a terra perché non voglio. – Oh, come sei noioso.

 

DUE PAROLE

Concludo, finalmente, la lettura della trilogia de “i nostri antenati” con il Barone rampante, un testo inseguito ormai da tempo. Non vi trovo piacevole rifugio (come spesso è capitato con Calvino, che nel mio cuore alterna grandi picchi a tonanti cadute) e scopro invece, direi anche purtroppo, richiami a storie più gradite, magari oggettivamente lontane da questo testo, come la recente “opera al nero”, che ben altri entusiasmi fu in grado di sollevare. Non vorrei confondere, però, perché non per la natura itinerante ed avventurosa dei loro protagonisti avrei diritto di accostare due romanzi evidentemente distanti e poco compatibili. Vengo un attimo all’ambientazione, così da ricordare a posteriori la trama. Siamo verso il fine diciottesimo secolo. Il giovane barone Cosimo Piovasco di Rondò decide di punto in bianco di passare il resto della sua vita sugli alberi, lontano da terra. La sua storia ci viene raccontata dal fratello, Biagio, che con voce semi onnisciente ne racconta le gesta dalla pubertà alla sfuggevole morte. Poco d’altro. Un giocoso (tipico Calvino) e fiabesco inno alla diversità. Cosimo, infatti, personifica perfettamente il ribelle assennato, l’uomo d’estro e bizzarria che si eleva sopra la piatta media circostante. Si eleva, del resto, non solo metaforicamente. Un bastian contrario così assennatamente descritto: “Forse, se proprio si vuole ricondurre a un unico impulso questi atteggiamenti contraddittori, bisogna pensare che egli fosse ugualmente nemico d’ogni tipo di convivenza umana vigente ai tempi suoi, e perciò tutti li fuggisse, e s’affannasse ostinatamente a sperimentarne di nuovi: ma nessuno d’essi gli pareva giusto e diverso dagli altri abbastanza”. Ma a tutti gli effetti non un misantropo. Nelle rare sfumature di bellezza Calvino verga il dipinto di una specie di eremita, del mistico che scopre la bellezza della vita tramite la sua distanza e che, di conseguenza, non può che accettarne passivamente la profonda verità. Quel senso di sconfitta e di solitudine che spesso accompagna gli uomini fuori dalla media, non per nulla “Cosimo tutti i giorni era sul frassino a guardare il prato come se in esso potesse leggere qualcosa che da tempo lo struggeva dentro: l’idea stessa della lontananza, dell’incolmabilità, dell’attesa che può prolungarsi oltre la vita.”