Jack London – Martin Eden

E poi, un giorno, inaspettatamente, sull’abisso che li separava, fu gettato un ponte, per un attimo, e da allora in poi, pur esistendo sempre, l’abisso fu meno vasto. Avevano mangiato ciliegie, grosse e succulente ciliegie nere, dal sugo color del vino rosso. E più tardi, mentre ella gli leggeva ad alta voce certi brani della Principessa, gli avvenne di notare una macchia di ciliegia sulle labbra di lei. Per un istante, la divinità di lei fu scossa. Ella era argilla, a tutto ben considerare, argilla soltanto, soggetta alla legge comune dell’argilla, come la sua propria argilla, come l’argilla di tutti. Le labbra di lei erano di carne come le sue e le ciliegie le tingevano come tingevano le sue. E se era così per le labbra, così doveva essere di tutta lei. Era donna… tutta donna, proprio come tutte le altre donne. Quest’idea gli balenò alla mente d’improvviso. Fu una rivelazione che lo sbalordì. Fu come se avesse veduto cadere il sole dal cielo, o se avesse veduto contaminare una sacra purezza. Poi si rese conto del significato della cosa, e il cuore cominciò a battergli forte e a sfidarlo a far la parte dell’innamorato con quella donna, che non era uno spirito appartenente ad altri mondi, ma semplicemente una donna, con labbra che una ciliegia poteva macchiare. Tremò dell’audacia del proprio pensiero, ma tutta l’anima sua inneggiava e la sua mente, in un peana trionfante, gli diceva che aveva ragione. Qualcosa di quel suo interno mutamento dovette giungere fino a lei, giacché ella si arrestò nella lettura, alzò gli occhi e sorrise. Gli occhi di Martin scesero dagli azzurri occhi alle labbra di lei, e la vista della macchia lo rese folle. Le sue braccia per poco non scattarono verso di lei a cingerla, al modo della sua vita spensierata di una volta. Ella parve chinarsi verso di lui e attendere, e tutta la volontà di Martin lottò per trattenerlo. «Lei non ha tenuto dietro nemmeno a una parola» ella disse, facendo il broncio. Poi rise di lui, godendo della sua confusione, ed egli, guardando in quegli occhi schietti e comprendendo che ella non aveva indovinato nulla di quanto egli sentiva, divenne timido. Veramente aveva osato troppo nel pensiero. Di tutte le donne che conosceva, non ce n’era una che non avrebbe indovinato… Salvo lei. E lei non aveva indovinato. Ecco in che consisteva la differenza. Ella era diversa. Rimase sgomento della propria grossolanità, intimorito dalla chiara innocenza di lei, e la contemplò un’altra volta attraverso l’abisso. Il ponte era crollato. Ciò nonostante, l’incidente lo aveva avvicinato a lei. Il ricordo gli rimase e, nei momenti in cui si sentiva più depresso, vi si soffermava con ardore. L’abisso non fu più tanto vasto. Egli aveva superato una distanza molto maggiore di una laurea in belle lettere o di una dozzina di lauree. Ella era pura, era vero, di una purezza che egli non aveva mai neppure sognato; ma le ciliegie le macchiavano le labbra. Era soggetta alle leggi inesorabili dell’universo, proprio come lui. Doveva mangiare per vivere, e se si bagnava i piedi prendeva il raffreddore. Ma questo non era il punto. Se poteva aver fame e sete e caldo e freddo, poteva sentire anche l’amore… l’amore per un uomo. Ebbene, egli era un uomo. E perché non avrebbe potuto essere lui quell’uomo? «Dipende da me farmi onore» mormorava fervidamente. «Sarò io quell’uomo. Diventerò quell’uomo. Mi farò onore.»

DUE PAROLE

Martin Eden è un giovane indomito e focoso, un diamante grezzo che grazie alla sola inarrestabile forza di volontà riesce a trasformare il proprio stato sociale ed elevarsi, più volte, dalla massa che lo circonda. I salti morali, o per meglio dire, le reincarnazioni di spirito e di intelletto che egli compie durante la vita-romanzo sono di natura sovrumana. Nato povero pescatore nullatenente egli riesce ad imprimere in se stesso, grazie a un lavoro inverecondo e un rifiuto quasi ascetico del sonno, un intero mondo di nozioni. Questo lo aiuta nel raggiungere il suo obiettivo primario, diventare una figura rispettabile della società, ma soprattutto un grande scrittore. La forza che lo guida è l’amore per la giovane Ruth, rampolla letterata di una casa di buona famiglia borghese. L’ardire del giovane uomo è però inarrestabile e ben presto egli arriva a superare non solo coloro che fino a pochi anni prima invidiava, ma persino i suoi stessi idoli. Raggiunto lo zenit culturale, Martin Eden comincia una lenta discesa, dalla cima della quale era arrivato ad osservare disgustato le piccolezze di quel mondo così sciatto e volgare. Il romanzo, e il procedimento di empirica scoperta della vita, si strutturano nel classico percorso di ascesa e caduta, trovando sublime circolarità nel finale, dove Martin Eden ritorna alle sue origini: il mare e il nirvana. Il percorso si può quindi vedere come un cuneo che si infila, per poi estrudersi, nello studio della vita, nei suoi oscuri meandri. Questo, a mio avviso, è il meccanismo più raffinato ed efficacie del libro. La morale non si ferma a questo però. Sebbene (direi purtroppo) l’autore ne approfitti per toccare grezzamente anche temi diversi (il socialismo, la critica grossolana alla borghesia e alla moda letteraria, etc.) l’incisività di questi non è alla stesso livello. Ci sono piccole deliziosi spunti anche in tal senso, uno di cui me lo suggerisce il buon Michele. Che siano l’aiuto del prossimo, la giustizia (ingiustizia) sommaria, e la stucchevole carità con le sole persone che lo circondano, una triste realizzazione dell’unico socialismo possibile? Mentre il secondo lo pesco direttamente dal testo: “La sua perplessità aumentò. Ricordò i giorni della sua fame disperata, quando nessuno lo invitava a pranzo. Quello era stato il tempo in cui aveva bisogno di pranzi ed era debole e languido per mancanza di cibo e dimagriva dalla fame. Lì stava il paradosso della cosa. Quando aveva bisogno di pranzi, nessuno gliene dava, e ora che poteva comprare centomila pranzi e stava perdendo l’appetito, i pranzi gli venivano dati per forza, a destra e a sinistra. Ma perché? Non c’era giustizia nella cosa, non c’era merito da parte sua. Egli non era diverso. Tutto il suo lavoro era, fin da allora, lavoro eseguito.” Un buon esempio di smacco alla ragione borghese del tempo (eternamente applicabile) che aiuta a riflettere sull’idiozia popolare delle mode e dei canoni culturali, ma anche di quelli sentimentali. Martin Eden rimane una costate immutabile. Un uomo talmente d’un pezzo da non mettere mai in discussione la sua integrità (cosa che, come dicevo poco fa, rischia spesso di sfociare in banalità letteraria e goffaggine narrativa). È piacevole però vedere questa immutabilità affiancata all’amore (Ruth lo rifiuta per l’impossibilità di cambiamento) e alla critica altrui. Pecca, London, di prolissità e narcisismo. Si evince la trama autobiografica dell’opera, nonché un certo orgoglio a richiami di proprie esperienze (il duro mestiere del lavandaio). Questo Martin Eden rimane comunque un buonissimo libro. Privo, certo, della verve di altri grandi scalatori sociali del panorama letterario (ne cito alcuni fra i grandissimi, chissà perché tutti francesi: Edmond Dantes, Bel Amì e Julien Sorel) ma pur sempre incisivo e memorabile. Un eroe (nonostante tutti i fallitissimi tentativi del London di renderlo anti eroico) nichilista e predestinato.