Kazbegi 27 Agosto

Una pagina, un libro, o una storia, sono i pianoforti più difficili da suonare. Quando ci si siede alla tastiera, con la melodia che suona chiara in testa, risulta comunque molto difficile stendere tutta quella serie di note senza avere l’impressione di commettere errori. Non parlo di refusi sintattici, né grammaticali. Parlo di una sensazione generale che soltanto chi ha provato ad esprimersi ha sentito. “Sentire”, verbo perfetto, non solo in questo caso. Scrivere comporta un’utopia che la musica non pretende di soddisfare, che è quella della comprensione. Nel momento in cui un uomo verga una sola frase, è già caduto in trappola e non può fare altro che peggiorare, dilungandosi. Mi piacerebbe allora farvi sentire i suoni di questo posto, cominciando dalla musica più sincera in assoluto: il rumore. Siamo tornati al vecchio modo di girare, le martushka e i tassisti. Vogliamo andare a Kazgebi e iniziamo la giornata di oggi dalla stazione di Okribi, pochi minuti fuori dal centro di Tbilisi. La gente e le macchine e i pullman si incrociano gridando ognuno a sua voce. La bolgia infernale delle richieste, delle destinazioni, dei clacson e delle povere anime che cercano di portare a casa la giornata con una buona corsa. Il rumore è anche confusione e ci facciamo intontire, non siamo lucidi, veniamo rimbalzati da parole che non capiamo, presentandoci solo con il nome del posto che vogliamo raggiungere. Quando contrattiamo il prezzo su carta il tassista capisce di aver guadagnato il pane quotidiano e ferma la macchina ogni due metri per acquistare generi di prima necessità. Parla in continuazione un altro tipo di rumore, la sua lingua, che noi fingiamo di comprendere per farlo sentire più a suo agio. Trovato il ritmo della crociera il rumore comincia a modificarsi e muta in ronzii della radio che cerca di sintonizzarsi su canali popolari. Ma la prima musica ad arrivare non giunge dallo stereo, bensì dal cielo. È il cinguettio serrato della pioggia che batte fine sul parabrezza. E salendo, salendo, il cielo si schiaccia sulle montagne con nuvole gravide d’acqua. Una strada a picco sulla vallata. Al di sotto, a circa trecento metri di dislivello, un fiume argento rompe in due la valle disegnando un diapason metallico che assorbe tutti i raggi fuggiti dalle nuvole plumbee. Piove di più adesso e le montagne sono verdi spugne porose morbide e massicce, di una verzura scura ed omogenea, di prati compatti e terra sana che sembra profumare di umidità. Un pilastro riporta l’altezza, 2395 metri dal fiume a croce d’argento. E’ il passo da valicare, scendiamo. Oh Georgia! Ma allora sei meravigliosa anche tu! Arriviamo a Kazbegi e cambiamo mezzo ed autista. Non capiamo inizialmente il motivo, pensiamo ai soliti colpi di testa o imprevisti ai quali siamo abituati, ma quando la strada si tramuta in una mulattiera ci tocca ammettere che, ancora una volta, affidarsi agli abitanti di un posto è di gran lunga la cosa migliore da fare. La musica ora è il cigolio degli ammortizzatori che squittiscono come topi mentre il Gesù sul crocifisso aggrappato al retrovisore sembra un bimbo sull’altalena. La vista che ci si para innanzi è magnificente. Immaginativi una stanza di una quarantina di chilometri di ampiezza, con muri imponenti ed un soffitto trasparente. Nel mezzo della stanza, rigorosamente verde, sul più prezioso dei mobili, un monastero arroccato che fluttua nel centro di una brezza gelata. Dietro i muri, severo, il monte Kazgek nascosto momentaneamente dal mal tempo sporge ogni tanto la sua cima innevata. Nell’ombelico del bacile la sua perla, la chiesa di Tsminda Sameba. Piove un po’ più forte ora e arriviamo alle porte sacre discretamente bagnati. Nella cappella più grande la sinfonia dell’acqua lascia il posto ad un sottile tappeto di luce, il suono delle candele che friggono di fronte ad una madonna negra dilapida il silenzio. Sarebbe bello, se ne aveste l’opportunità, farvi leggere il dario di oggi da qualcuno, piuttosto che leggerlo voi stessi. Andreste nel mondo dei rumori come siamo andati oggi io e il Mattia Leonardi e il Matteo Angelino, e riuscirei a fare prendere forma a quella pioggia lontana, ormai dimenticata, che ci ha attraversato, ripulito, bagnato. E che tanto è servita a rigenerarci lo spirito e le ossa.

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