Marilynne Robinson – Gilead

Divenni molto bravo a fingere di capire, un’abilità che mi è servita ad andare avanti nella vita. Ti dico questo perché voglio che tu ti renda conto che sono tutt’altro che un santo. La mia vita non è assolutamente paragonabile a quella di mio nonno. Godo di molto più rispetto di quanto non meriti. Nella maggior parte dei casi sembra un fatto abbastanza inoffensivo. La gente vuole rispettare il pastore e io non ho intenzione di metterci bocca. Ma mi sono fatto una grande reputazione di erudito ordinando più libri di quanti non abbia mai avuto il tempo di leggere, e leggendone tanti, ma proprio tanti, che non mi hanno insegnato nulla di utile, tranne, ovviamente, il fatto che certi signori assai noiosi hanno scritto dei libri. Questa non è un’intuizione nuova, ma per poter cogliere appieno la verità che contiene bisogna sperimentarla di persona. Comunque, ringrazio Dio per averli letti tutti, e per quello strano intervallo, che è durato la maggior parte della mia vita, in cui ho letto per solitudine, e le cattive compagnie erano molto meglio di nessuna compagnia. Si può amare un brutto libro per il suo squallore, per la sua pomposità o per la sua impudenza, se si ha quell’appetito famelico di cose umane, che spero sinceramente non avrai mai. «Gola sazia disprezza il miele; ma per chi ha fame anche l’amaro è dolce». Può capitare di trovare diletto laddove non lo cercheresti mai. Questo è un esempio di saggezza paterna, ma è anche la verità del Signore, e un insegnamento che ho tratto dalla mia lunga esperienza. Spesso, quando qualcuno vedeva la luce accesa nel mio studio fino a notte fonda, significava soltanto che mi ero addormentato in poltrona. La mia reputazione è in gran parte frutto delle benevoli fantasie dei miei fedeli, che ho scelto di non disilludere, anche perché la verità conteneva quel genere di pathos che avrebbe dato luogo alla compassione nelle sue forme meno sopportabili. Ebbene, sapevano tutti come si svolgeva la mia esistenza, sotto tutti gli aspetti importanti, ed erano riguardosi. Ho passato buona parte della vita a consolare gli afflitti, ma non sopporterei mai l’idea che qualcuno cercasse di consolare me, tranne il vecchio Boughton, che ha sempre avuto il buonsenso di parlare poco.

 

 

DUE PAROLE

Il reverendo John Ames ha settantasette anni ed è gravemente malato di cuore, attende la morte da un momento all’altro. Decide quindi di scrivere una lettera confessione al proprio figlioletto di sei anni, incapace di capire quello che presto accadrà. Ne esce un lungo racconto che intreccia ricordi familiari, sermoni spirituali e reali preoccupazioni di vita quotidiana. La dimensione di Ames sembra infatti divisa in due grandi emisferi, quello della spiritualità e quello della dimensione umana, con la quale ha una gran difficoltà a relazionarsi. Egli vede giorno dopo giorno la fusione di queste entità in maniera sempre più soffusa, la fine, prossima, la schiaccia sempre più verso il terreno ed il tangibile. Il processo innescato dalla memoria fa emergere le grandi dicotomie presenti nella sua vita. L’aver sposato una moglie più giovane di lui (che sarà costretto ad abbandonare insieme al figlio), l’eredità di una famiglia di predicatori, il nonno reazionario e abolizionista, il padre colto e pacifista e soprattutto la famiglia Boughton che funge da perfetta antagonista terrena ad una famiglia così spirituale.
L’interpretazione del libro può divagare in diversi ambiti. Tralascio, non avendone alcuna capacità d’analisi, quello teologico e mi soffermo su quello generazionale. Mi è sembrato infatti che l’ultimo canto del pastore, ovvero la narrazione della sua stessa vita e del suo contesto, fosse una presa di coscienza del cambiamento del mondo e della società. Descrivendolo nel modo più semplice possibile, mi riferisco proprio a quel passaggio dalla ruralità – siamo a Gilead, una (immaginaria) cittadina sperduta nell’Iowa – alla mondanità. I bagliori di un’apertura sociale verso l’integrazione e un piccolo atto di rivolta al bigottismo (un bigottismo buono, quello di fedeli che credono nella purezza del bene divino). “Gilead” è un romanzo molto americano, spudoratamente ed esageratamente americano, quasi più del gotico di Gaddis. Il punto forte del romanzo è quello di non calcare mai la mano sulla teatralità della morte (che, ammetto, mi aspettavo di trovare). Anzi, il concetto è spesso trattato con la leggerezza che a volte solo gli uomini di fede sanno avere. Dice il reverendo: “Vorrei poterti lasciare alcune delle immagini impresse nella mia mente, perché sono talmente belle da rendermi insopportabile l’idea che si spegneranno insieme a me. Ma del resto questa vita possiede una leggiadria mortale tutta sua. E la memoria non è rigorosamente mortale per natura. In fondo è strano poter ritornare a un momento, quando praticamente non si può sostenere che abbia alcunché di reale, nemmeno nella sua fugacità. Sí, insomma, l’attimo è una cosa talmente impalpabile che il suo permanere è una proroga assai misericordiosa”. Il punto debole è la prolissità. “Gilead” è una (lunga e a volte noiosa) utopia di un uomo che spera e che prega e che vuole sopravvivere alla memoria nella bellezza abbacinante della morte.

 

p.s. ah, non so se sono io nel torto, ma a me sembra che l’edizione che ho letto avesse tutti i “più” scritti con l’accento al contrario. Ma magari sono io eh.

 

INFO UTILI

3 o 4 ore di lettura circa?
ebook, ISBN 9788806179991