Michel Houellebecq – Sottomissione

“È la sottomissione,” disse piano Rediger. “L’idea sconvolgente e semplice, mai espressa con tanta forza prima di allora, che il culmine della felicità umana consista nella sottomissione più assoluta. È un concetto che esiterei a esporre davanti ai miei correligionari, potrebbero giudicarlo blasfemo, ma per me c’è un rapporto tra la sottomissione della donna all’uomo come la descrive Histoire d’O e la sottomissione dell’uomo a Dio come la contempla l’islam. Vede,” proseguì, “l’islam accetta il mondo, e lo accetta nella sua integrità, accetta il mondo così com’è, per dirla con Nietzsche. Per il buddhismo il mondo è dukkha – inadeguatezza, sofferenza. Il cristianesimo stesso manifesta serie riserve – Satana non viene definito “principe di questo mondo”? Per l’islam, invece, la creazione divina è perfetta, è un capolavoro assoluto. Cos’è in fondo il Corano, se non un immenso poema mistico di lode? Di lode al Creatore e di sottomissione alle sue leggi. Quando qualcuno vuole avvicinarsi all’islam, in genere non gli consiglio di cominciare con il Corano, a meno che, ovviamente, non voglia sforzarsi di imparare l’arabo per immergersi nel testo originale. Consiglio piuttosto di ascoltare la lettura delle sure, e di ripeterle, di percepire il loro respiro e il loro fiato. L’islam, d’altronde, è l’unica religione che abbia proibito qualsiasi traduzione nell’uso liturgico; perché il Corano è interamente composto di ritmi, di rime, di echi, di assonanze. Poggia sul concetto che è alla base della poesia, il concetto di un’unione tra sonorità e senso che permette di dire il mondo.”

 

DUE PAROLE

La decadenza dell’uomo moderno si manifesta, in questo romanzo, attraverso concetti concreti che astraggono lo stesso nei suoi vari livelli esistenziali: quello corporale, quello culturale e quello sociale. Ho avuto come l’impressione, infatti, che questo maledetto racconto, così tanto capace di generare polemiche e minacce, non fosse poi un attacco diretto all’islam, bensì al nostro modo decadente di vivere la contemporaneità. Quale migliore spauracchio, quale migliore vento di paura, per simboleggiare il tutto, se non l’immortale e sentitissima cavalcata xenofoba?
Torando ai piani di azione, il romanzo crolla lungo le tre dimensioni sopra menzionate. Il livello corporale, ovvero quello più basso e attaccato al soggetto, si sgretola sia sul piano sentimentale che su quello fisico. Quello culturale attinge da uno degli ambienti più fragili e spocchiosi per antonomasia, il mondo universitario (nella fattispecie la roccaforte intellettuale francesce – e di sinistra – della Sorbona). Mentre quello sociale esplode, ovviamente, per la nazione intera, grazie all’apocalisse musulmana. La commistura di questi tre elementi è stato il propellente perfetto per questo testo a dir poco esplosivo, direi pirotecnico. Davvero non capisco come un lettore musulmano possa essersi sentito offeso da tale testo. Ma non stiamo qui a parlare di incompresioni e di mondanità, infine non danno nessun valore aggiunto alle mie già precarie sinossi.
Questa introspezione freudiano, già caratteristica fondamentale trovata in una precedente lettura di Hollenbeque, viene dichiarato sin dalle prime pagine. È solo grazie alla letteratura che l’analisi può affiorare. Dice l’autore: “Solo la letteratura può permettere di entrare in contatto con la mente di un morto, in modo più diretto, più completo e più profondo di quanto potrebbe fare persino la conversazione con un amico; per quanto profonda e solida possa essere un’amicizia, in una conversazione non ci si abbandona mai così completamente come davanti a una pagina bianca, rivolgendosi a un destinatario sconosciuto.” Il malato in questione (La Francia-Individuo) è già considerate clinicamente morto. La decadenza, d’altronde, dà il meglio di sè se letta a posteriori. E si noti come vegano usati alcuni meravigliosi stereotipi, come quello dell’insegnante universitario, per descrivere un anti-eroe anti-macho, la migliore espressione della debolezza Europa che dal 1800 in poi ha incominciato a infiacchire I portatori di pantaloni (ma sì, è l’Europa stessa) del vecchio continente. Raffinato, Hollembeque, che di accademico – dice lui stesso – non ha proprio nulla a curriculum. Sarò una caso, ma l’amante ebrea che lo abbandona, che fugge nella sua terra, non è poi una metafora così complicata da acciuffare. E come manifesta la crisi d’identità il buon professore? Con il cibo. Ripetutatmente, credo volutamente, il protagonista si nutre di cibi stranieri innaffiati da alcolici francesi. L’entità narrante ha bisogno del proprio corpo, delle proprie terga e dei propri sensi, per sentirsi vivo. C’è un crudo empirismo esistenzialista. La Perdita dei sensi corrisponde ad una netta sconfitta dell’identità (singolare e popolare, certo!). La sottomissione, non per niente, è l’unico rimedio sodomita, sinanche carnale, in grado di risvegliare un continente ed un’individualità destinatate sempre più alla necrosi. Si legga: “Il mio corpo in generale era sede di diverse affezioni dolorose – emicranie, malattie della pelle, mal di denti, emorroidi – che si susseguivano senza interruzione, in pratica non dandomi mai tregua – e avevo solo quarantaquattro anni! Chissà a cinquanta, a sessanta, oltre!… A quel punto non sarei stato altro che una giustapposizione di organi in lenta decomposizione, e la mia vita sarebbe diventata una tortura incessante, cupa e senza gioia, meschina. In fondo il cazzo era l’unico dei miei organi che non si fosse mai manifestato alla mia coscienza per il tramite del dolore, ma solo per quello del piacere”. Il dolore. Non sembra lo stesso discorso di un martire Cristiano?