Pedro Páramo – Juan Rulfo

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DAL TESTO

Sentivo il ritratto di mia madre, che tenevo nel taschino della camicia, scaldarmi il cuore, come se anche lei sudasse. Era un vecchio ritratto, smangiucchiato ai bordi; ma era l’unico che conoscevo. L’avevo trovato nell’armadio della cucina, dentro una casseruola piena di erbe: foglie di melissa, erba di Castiglia, rametti di ruta. Da allora l’avevo tenuto. Era l’unico. Mia madre non aveva mai voluto farsi ritrarre. Diceva che i ritratti erano roba da stregoneria. E così pareva essere; dato che il suo era pieno di buchi come di spillo, e dalle parte del cuore ce n’era uno molto grande in cui ci si poteva entrare il dito del cuore, il medio.

 

DUE PAROLE

Pedro Paramo è un romanzetto che contiene – e detta – i canoni di quel realismo magico che prenderà poi piede nella letteratura di consumo grazie a scrittori come Gabriel Garcia Marquez. Se “Cent’anni di solitudine” è la Bibbia, il suo punto più alto d’espressione, Pedro Paramo ne è la genesi. La storia, come nelle più classiche tradizioni sudamericane, parla del ritorno alla terra e alle origini del protagonista, il quale, ripercorrendo luoghi suggestivi attraverso racconti popolari, si mette alla scoperta del Padre. Qui, in embrione, possiamo trovare quella splendida rielaborazione della realtà mischiata a misticismo, superstizione e leggenda capace di trasformare la cronaca in racconto fiabesco. Ne riporto degli esempi, parallelismi talmente evidenti da farmi credere che Marquez non solo fosse rimasto affascinato dalla prosa di Juan Rulfo, ma persino d’averne approfittato a piene mani. Oltre all’incipit, praticamente parafrasato, richiamo un altro paio d’estratti.

“E la tua anima? Dove credi che sia andata?”
“Starà vagando sulla terra come tante altre; cercando vivi che preghino per lei. Forse mi odia perché l’ho trattata male; però questo non mi preoccupa più. Mi sono liberata dal vizio dei suoi rimorsi. Mi amareggiava persino quel poco che mangiavo, e mi rendeva insopportabili le notti riempiendole di pensieri paurosi con immagini di condannati e cose del genere. Quando mi sedetti a morire, lei mi pregò di alzarmi e di continuare a trascinare la vita, come se ancora aspettasse qualche miracolo che mi lavasse via le colpe. Non ci provai nemmeno: “Qui termina la strada”, le dissi, “non ho più forze per altro”. E aprii la bocca perché se ne andasse. E se ne andò. Lo capii quando nelle mie mani cadde il filino di sangue con cui era legata al mio cuore.”

Evidentemente simile alla scena in cui il Colonnello Buendia di Cent’anni aspetta il passaggio della sua morte sul patio. Oppure:

All’alba la gente venne svegliata dal rintocco delle campane (…) Ma il rintocco durò più del dovuto. Ormai non suonavano soltanto le campane della chiesa maggiore, ma anche quelle delle Sagre de Cristo, della Cruz de Verde e forse quelle del Santuario. Giunse mezzogiorno e il rintocco non cessava. Giunse la notte. E giorno e notte le campane continuarono a suonare, tutte allo stesso modo, sempre più forte, finché quello diventò un lamento fragoroso di suoni (..) Dopo tre giorni erano tutti sordi. Era impossibile parlare con quel ronzio di cui era piena l’aria.

Anche qui la “piaga” delle campane che sembrano non voler smetter più di suonare richiama la pioggia infinita o l’improvvisa assenza di memoria che cadono su Macondo.
Insomma, un libretto di non facile lettura, che perde in scorrevolezza a causa dei continui salti narrativi. Un incastro temporale e generazionale che, come per la sua storia, coniuga confusamente futuro e passato di personaggi talmente legati intrinsecamente alla loro terra, da condividerne il triste destino.

 

INFO UTILI

Pag. 141 – 2 ore e mezza circa.
Letture affini: Cent’anni di solitudine, G.G. Marquez – Eva Luna, I. Allende

 

ORIGINI

Pedro Páramo – Juan Rulfo – 1955
Paul Gauguin – Self Portrait