Sotto il vulcano + Albert Marquet

Albert-Marquet-N-poles-El-velero

DAL TESTO

E’ una sera d’estate azzurrina, chiara, illune, ma tardi, forse le dieci, con Venere che arde incandescente nella luce diurna, e dunque ci troviamo certamente molto al nord, e in piedi su questo balcone, quando d’oltre il braccio di mare lungo la costa arriva il rombo sempre più assiduo d’un lungo treno merci trainato da più d’una locomotiva, rombo, perché quantunque ci separi quest’ampia striscia d’acqua, il treno corre verso levante, sotto un cielo terso, meno là dove molto lontano a nord-est, sopra remote montagne di porpora sbiadita, si stende a una massa di nuvole d’un bianco quasi puro, illuminate all’improvviso, come da una luce in una lampada d’alabastro, interamente, da un lampeggiare di folgori dorate, ma non puoi udire tuono alcuno, solamente il rombo del grande treno con le sue locomotive e l’eco del suo sferragliare sugli scambi a misura che avanza dalle colline per entro le montagne; ed ecco, ad un tratto, un peschereccio dall’alta alberatura comparire a tutta forza da dietro la punta, come una giraffa bianca, molto veloce e solenne, lasciandosi a poppa un lungo e argenteo orlo di scia, che non muove visibilmente verso la costa, ma ora avanza pesantemente furtivo, in direzione della spiaggia dove noi siamo, quest’argento orlo traforato di schiuma che colpisce prima la battigia in lontananza, quindi si dilata lungo tutto l’arco sabbioso, il suo rombo e la sua agitazione crescenti sommandosi ora allo scemante fragore del treno, e infine si frange roboante sulla nostra spiaggia, mentre le zattere, perché ci sono zattere d tronchi per tuffarsi, ondeggiano insieme, ogni cosa cozzando e graziosamente sollevandosi, dimenandosi, per l’assillo di questo ondoso argento forbito, poi a poco a poco torna calma, e tu vedi il riflesso delle remote nuvole bianche nell’acqua profonda, mentre il peschereccio stesso con un ricamo dorato delle luci di rotta nella sua scia d’argento svanisce dietro il promontorio, silenzio, ed ecco ancora, entro le bianche bianchissime e distanti alabastrine nuvole temporalesche al di là delle montagne, la dorata folgore senza tuono nella sera azzurra, soprannaturale…
E come restiamo là a guardare ad un tratto ci giunge lo sciaquio di un altro bastimento invisibile, come una grande ruota, i vasti raggi della ruota roteante in fondo alla baia. (Parecchi mescal più tardi). Sin dal dicembre 1937 e sin da quando te ne andasti, e siamo ora, mi dicono, nella primavera del 1938, ho testardamente lottato contro il mio amore per te. Non osavo soggiacervi. Mi sono aggrappato a ogni radice e ad ogni ramo che mi aiutassero a varcare da me questo abisso spalancatosi nella mia vita, ma non posso illudermi oltre. Se devo sopravvivere, ho bisogno del tuo aiuto. Diversamente, prima o poi, precipiterò.

ORIGINI

Sotto il Vulcano – Malcolm Lowry – 1947

Albert Marquet – Napoli, il veliero – 1910 circa

DUE PAROLE

Il lungo e tragico delirio alcolico di un console inglese abbandonato all’ombra di due vulcani messicani assieme alla moglie, ex moglie, ed al fratello Hugh. Un libro molto difficile da leggere, accostabile all’Odissea di Joyce, non solo per complessità. Parecchi sono i rimandi al classico: la durata del ciclo narrativo nella singola giornata, un traghettatore-caronte a nome di Cervantes e molti ancora. La vicenda ripercorre l’ultima giornata di vita di Geoffrey Firmin, alter ego dello stesso Lowry, in un turbinio fittissimo di pensieri. Capace di un sentimentalismo spiazzante, una letteratura altissima, da decriptare, la prosa si srotola fittissima districandosi, come per Joyce, per dialetti locali, flashback, ritrosie, deliri allucinati e bevute, soprattutto bevute. Il Mescal impregna le pagine di Lowry, come l’alcolismo ne distrusse la vita. Imbarazzanti, per bellezza, le ultime pagine. La cosa più vicina al magistrale finale del Moby Dick che mi sia capitato di leggere.