Tbilisi 29 Agosto

Stamattina mi sono svegliato con l’alone di un sogno nella testa. Ero ad un mercato rionale, probabilmente in uno dei paesi che ho visitato in questi giorni, ed osservavo la bancarella di un venditore. Aveva, poco lì accanto, una scatola cartone e ci posava sopra una di quelle macchinine elettriche che girano in continuazione senza mai cadere dalla piattaforma. Quel tipo di macchinine che disegnano gli ingegneri. Le accendi, le posi, loro corrono, arrivano fino al bordo, si sporgono e poi tornano indietro. Finché hanno energia puntano un baratro, ci si avvicinano, e poi al limite estremo della caduta tornano indietro e continuano così per sempre, girando sul cartone. Con l’usura, alcune di queste macchinine si guastano e finiscono con il non riconoscere più il limite. Cadono e precipitano. Fra quelle che precipitano, talune si rompono perennemente, talaltre no. Ma questo gli ingegneri non riescono ancora a spiegarlo, e infondo nemmeno ci interessa. Non so perché mi sia svegliato con quest’immagine in testa, ma questa cosa, intendo il percorso delle macchinine sui cartoni, penso assomigli molto alla vita. Riducendola in termini popolari, la vita è un rozzo scatolone sul quale facciamo la stessa identica cosa di quelle macchinine. Andiamo dritti spediti per il limite, trovata la vertigine ci voltiamo e torniamo indietro ricominciando instancabilmente fino a trovarne uno nuovo, così fino al guasto. La cosa più inquietante è dunque la dimensione del cartone. Viaggiando (e vi ricordo che non è necessario muoversi per farlo) si arriva a distruggere questa paura perché, lentamente, ci si accorge di come tutto sia limitato e quindi come, di conseguenza, anche il muoversi lo sia. Si può girare in lungo e in largo un continente, uno stato, una regione, una città, un paese, una quartiere, una casa, una stanza o un pezzo di cartone.. per l’eternità, per arrivare a dire, all’alba del tuffo, di non averci capito niente, di non conoscere niente, di voler veder e provare tutto daccapo. E’ la dimensione che diamo al nostro percorso a rendere il cartone gigantesco. Anzi, come è accaduto a macchinine più famose (penso ad Hemingway o Pavese o Van Gogh o Foster Wallace e a molti altri ancora) l’arrivare ad immaginare per un attimo l’illimitata dimensione teorica del cartone è diventato un peso insostenibile risolto, a torto o ragione, in una volontaria caduta. Vi chiederete ora perché ho deciso di raccontarvi questo sogno e spenderci un pensiero. Bene, per tre distinti motivi che vi elenco. Il primo è molto pratico: oggi non abbiamo visitato nulla di significativo, siamo tornati a Tbilisi al fine di prepararci all’ultima gita e ne ho approfittato per scrivere di qualcosa che non sia strettamente inerente al viaggio. Il secondo è proprio l’anima del viaggio stesso e la volubilità del mio racconto. Avete mai pensato che io abbia potuto scrivere queste pagine senza averle veramente vissute? Cosa sarebbe cambiato in voi lettori? Vi sareste forse emozionati di meno, ci avreste immaginati (io, il Mattia Leonardi e il Matteo Angelino) in maniera differente? Credo di no, e non mi fermo qui. Questo è il cardine del mio teorema, questo dimostra come la dimensione del vostro cartone sia ulteriormente ininfluente quando si sprigiona la forza dell’immaginazione. Terzo, nonché ultimo motivo, un banale consiglio. Ho detto poco fa che le macchinine, i sistemi di contollo, le traettorie e molte altre cose ancora, le fanno gli ingegneri. L’intero mondo funziona grazie a loro. Non intendo qui denigrare il loro lavoro, anzi, è proprio con la scienza che il mondo si evolve. Ma un sistema costituito solo di regole funzionali sarebbe una gabbia di cristallo. Un Dio così severo sarebbe il peggiore dei venditori ambulanti. Tenete sempre a mente, specie quando vi sentite pesci in un boccaccio, o macchinine su una scatola, che le dimensioni del cartone le possono dettare solo e soltanto la nostra passione e la nostra irrazionalità. E credetemi, se avete il coraggio di chiudere gli occhi, queste possono sembrare davvero prive di ogni limite.

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