Vayk 23 Agosto

La signora che gestisce il nostro ostello ha gli occhi tristi. Come tutte le donne, anche lei è fatta di acciaio e manda avanti da sola la baracca da dodici posti letto senza battere ciglio e quando la casa si riempie fino all’ultima branda, lei dorme sul divano in salotto, l’ho vista coi miei occhi l’altra notte quando mi sono alzato per fare pipì. Tutte le mattine proviamo a scappare evitando la colazione ma lei si acquatta, sbuca da un angolo e ci supplica quasi di mangiare al suo tavolo. Ha un’anima talmente pia che ci è praticamente impossibile dirle di no. Il problema è che mangiamo uova tutti i giorni. Ovetti, ovettini, uova sbattute, uova sode. Ci stanno per uscire dal naso come Celentano sta per uscirci dalle orecchie. Lei puntualmente posa il colombiano orgoglio sul tavolo e si irradia di bellezza. Provate voi a non mangiare le uova dopo un gesto così, anche se vi stomacano. La signora non abbiamo capito ancora che lingua parli. Quando si rivolge a noi usa a rotazione quattro idiomi, intercalandoli a caso e intrecciandoli ad ogni cambio di parola. Francese, tedesco, inglese, armeno, forse anche italiano. Se si prova a parlarle in una lingua sola però si blocca, lucida gli occhioni sotto i capelli perennemente arruffati, e poi comincia a scarabocchiare sulla carta. Ormai ci capiamo benissimo e ieri mi ha anche detto due parole di fila nella stessa lingua (era francese). Ci sarebbe il figlio a poter dare una grande mano. È giovane e robusto e parla un ottimo inglese, ma come tutti (sottolineo, tutti) quelli della mia generazione, preferisce fottersene. Stamattina la gita era lunga, ci siamo alzati di buon’ora e lei era già in piedi e sapevo già cosa stava bramando. “Una breakfast, s’il vous plait? Ja?”. Va bene, Mangiamo l’ovetto e partiamo verso sud. Lasciata Yerevan ormai da un’ora giriamo a sinistra mantenendoci l’Aragatsotn alle spalle con il suo cappellino di neve sulle ventitré. Nel lungo rettilineo che ci conduce nel canyon sbucano ogni cento metri delle bancarelle ordinatissime piene di cocomeri. Non le ho contate con precisione ma saranno state un centinaio sicuro. Tutte uguali gremite di zucche verdi. Cocomeri, angurie, meloni di pane, meloni d’acqua, zipanguri. Accatastati con precisione meticolosa a forma di piramide verde, potevi scambiare per degli enormi grappoli di uva se non prestavi attenzione. Fortuna siamo dei tipi svegli. Passati i meloni tutto è esploso nella vastità dell’arancione. Avendo sempre un occhio per i limiti, ma non sapendoli, impongo al vascello un’andatura catatonica che ci proietta in lunghe pensate immortali. Il giallo senape, che porta l’erba secca e bionda a valle, restituisce nelle sue parti più dure delle pareti di doccia dorata dalla purezza indiscussa. Le giumente e le vacche pascolano e osservano, come fossero immuni ad una bellezza che potreste aver visto solo nei film western dei grandi schermi americani. Ma chi cerca l’America ora? La nostra America è qui, adesso, in un paese con ben altre dicotomie e noi, proprio come nei film hollywodiani, ne rubiamo solo la parte che ci fa comodo, che solo vogliamo vedere, o raccontarvi. Una macchina, la strada, il religioso silenzio della natura ed un discreto senso di libertà. Siamo talmente liberi, nella meta, che ci perdiamo nei sentieri. Il navigatore non aiuta perché come spesso succede arriva fino ad un certo luogo, ignorando poi le strade che (a ragione) parrebbero impraticabili anche al più esperto autista. Quando un ruscello ci sbarra la strada capiamo che è il momento di arrendersi alla comodità. Molliamo la macchina in un campo e ci avviamo a piedi verso il cielo, con ottimo ritmo. In meno di un’ora siamo a quello che volevano vedere. Si tratta di Tsakhatskar una roccaforte-monastero abbandonata, risalente al quinto secolo. Ci dimentichiamo l’acqua e la discesa si rivela una tentazione continua. Sirene incantatrici, ruscelli di montagna, pozze di fango. Abbiamo le fauci secche ma resistiamo resistiamo e resistiamo e al ritorno le angurie sono ancora disposte come le avevamo viste, immobili, freschissime. Quando ci togliamo la sete il piacere è più grande e non importa se il Mattia Leonardi abbia preso l’acqua maledettamente bicarbonata e gassata, perché ogni rutto è ora canto di felicità, perchè bere ci è mancato tanto. È vero, è importante, quando si fatica tenersi ben idratati e mangiare cose energetiche. Scommetto che domani mattina il nostro ovetto sara lì che ci aspetta.

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