Walter Tevis – L’uomo che cadde sulla terra

Non era un uomo, eppure era molto simile all’uomo. Era alto uno e novanta, e certi uomini sono anche più alti, aveva i capelli bianchi come quelli di un albino ma il volto era leggermente abbronzato e gli occhi di un azzurro pallido. La struttura di tutto il corpo era incredibilmente esile, le fattezze delicate, le dita lunghe, sottili e la pelle quasi translucida, priva di peli. Il volto faceva pensare a un Elfo, gli occhi grandi, intelligenti potevano essere quelli di un ragazzo (avevano uno sguardo infantile) e i capelli bianchi e ricciuti gli erano cresciuti intorno alle orecchie. Aveva un aspetto molto giovane. C’erano anche altre differenze: le unghie artificiali, per esempio, perché non ne possedeva per natura. Ognuno dei piedi aveva soltanto quattro dita, e non aveva né l’appendice intestinale né denti del giudizio. Non gli sarebbe potuto venire il singhiozzo perché il suo diaframma, come tutto il resto dell’apparato respiratorio, era estremamente solido e molto ben sviluppato. L’espansione del torace sarebbe stata di circa quindici centimetri, mentre il peso totale del corpo era relativamente minimo, circa quarantacinque chili. Eppure aveva ciglia e sopracciglia, i pollici prensili e mille altre caratteristiche fisiologiche di un normale essere umano. Non poteva essere affetto da verruche, ma andava soggetto a ulcere dello stomaco, al morbillo e a carie dei denti. Era un essere umano, insomma, ma non esattamente un uomo. Come questi, era suscettibile all’amore, alla paura, all’intenso dolore fisico e all’autocompassione.

DUE PAROLE

Fantascienza umana, vicina alla tragicommedia. Quasi un tratto caratteristico di Tevis (penso all’intelligenza suprema, e pertanto triste, de “solo il mimo canta”). Un finale applicabile al più triviale dei film hollywoodiano sull’uomo medio tradito dal sogno americano, eppure incredibile fresco e inedito per il genere sci-fi. Degno di nota, ad avviso del sottoscritto, il processo descritto dall’autore di quel comportamento -così immanentemente umano- di assorbire le circostanze e somatizzarle nelle proprie abitudine così come nella propria cultura. L’uomo del futuro, un alieno umanoide di divina intelligenza, si trasforma lentamente nel beone fallito e inerme, degno del nostro secolo. Metafora su più livelli, dal Cristo sceso in terra per salvarci, all’icaro in volo verso la conoscenza. Non a caso l’autore richiama a mo’ di leit motiv il quadro di Bruegel e, allo stesso modo, brucia le ali del suo giovane eroe: gli occhi mistici di newton, simbolo di visione e progresso, di un orizzonte lontano, incomprensibile a questa razza terrestre che, proprio come un bambino inesperto, usa violenza innocente per distruggere ciò che non può capire.