Dice Bianca: “si parte per conoscere il mondo, si torna per conoscere se stessi” è una bella frase. Dico io “si potrebbe rendere più poetica”. Tipo: lasciare è rischiare, tornare è sperare. Così torno e così spero. Si lascia se stessi per capire gli altri, si torna per raccontare degli altri a noi stessi. No? Itaca, ancora maledettissima Itaca. Rieccoci. Non vi diremo dove comincia questo racconto, senza che vi siate accorti è già iniziato. L’ennesimo. In un agosto dove tutti partono, dove per chi non presta attenzione il viaggio si ripete, è noioso, è casa, banalità, scappa, per il sottoscritto è tristezza e necessità. Forse, ancora una volta, speranza. Comincia così, nuovamente, un altro viaggio non voluto, arrangiato, raffazzonato . Ci troviamo in Sicilia. La trinacria, il triangolo, la vagina… poi. Tre punti, tre noi. Lo spirito del Fred si è finalmente rimaterializzato. Tutti dicono: era ora. Capitan Puma è altrove, si cambia vascello a questo giro e oltre al Fred il Dandy, sempre e ostinatamente insieme nonostante le distanze, sempre ed ostinatamente insieme nonostante l’assenza di una meta. Dove diavolo è casa mia? Alcune persone viaggiano all’interno di un viaggio. Fanno del loro porto primo l’amore invece del luogo di nascita e si sentono, come un riflesso sull’onda, perennemente in mare, lontano da quella che tutti i pigri chiamano tranquillità. Le onde, si sa, non hanno mai pace. Dove diavolo è casa loro? Abbiamo un mare, dentro, immenso. Tutti abbiamo un mare dentro e oggi il mio è straripato, incontenibile, fuggendo dai pertugi con i quali, di solito, sono solito godermi la risacca degli arresi. Ho provato a vincerlo asciugandolo di respiri. Ho provato a chetarlo allungandolo di spirito. Come al solito scrivo di notte. Siamo appena rientrati dalla cena, imbottiti di whiskey. Abbiamo girato un po’ di bar per trovare del whiskey decente. I miei due amici dormono. Durante la cena, quel figlio di puttana del cameriere ci ha tolto il piatto per la scarpetta portandoci altro pane fresco, levandoci però la pietanza. Come dire: “chi ha i denti non ha il pane”. Vero verissimo. Abbiamo mangiamo a Taormina. Avrei voluto della roba colorata da ingerire per vivacizzarmi gli interni ma ho finito con ordinare un piatto nero che mi ha sporcato persino le labbra. Sono ossessionato dai colori. Dice Bianca: “Sono il colore che non hai”. Vero, verissimo. I ragazzi adesso russano in coro, ve li farei sentire, sono davvero fantastici, russano proprio forte e sembra si richiamino uno con l’altro. Prima di tornare in camera ci siamo fermati su una terrazza vista mare e abbiamo guardato il golfo sotto di noi. Incredibile come una luce, nel buio, diventi affascinante. Già, merda, è l’assenza di colore che risalta le cose. Siamo ossessionati dalla ricerca del colore. Specialmente da quello che non abbiamo. Tre navi dormono illuminate nel profondo del mare, coccolate, certezze abbandonate in quell’incantevole specchio di petrolio. Un vento caldo respira e noi ascoltiamo. Quando torniamo in camera, prima di addormentarci, Dandy ci fa sentire una canzone. Dice: “quando morirò, voglio che suoni questa al mio funerale” e si addormenta. No, non vi dirò mai che canzone era.