Primo Levi – La chiave a stella

Attardi Ugo - muratori al lavoro

Un giorno ero proprio in cima alla torre con la chiave a stella per verificare il serraggio dei bulloni, e mi vedo arrivare lassù il committente, che tirava un po’ l’ala perché trenta metri è come una casa di otto piani. Aveva un pennellino, un pezzo di carta e un’aria furba, e si è messo a raccogliere la polvere della placca di testa della colonna che io avevo finito di montare un mese prima. Io lo stavo a guardare con diffidenza, e dicevo fra di me “questo è venuto a cercare rogna”. Invece no: dopo un po’ mi ha chiamato, e mi ha fatto vedere che col pennello aveva spazzato nella carta un pochino di polvere grigia.
“Sa cos’è?” mi ha chiesto.
“Polvere”, ho risposto io.
“Sì, ma la polvere delle strade e delle case non arriva fin qui. Questa è polvere che viene dalle stelle”.
Io credevo che mi pigliasse in giro, ma poi siamo scesi, e lui mi ha fatto vedere con la lente che erano tutti pallini rotondi, e mi ha mostrato la calamita che li tirava. Insomma, erano di ferro. E mi ha spiegato che erano le stelle cadenti che avevano finito di cadere.

 

DUE PAROLE

Il protagonista e tale Tino (Libertino) Faussone si trovano per casualità in Russia durante un viaggio di lavoro. Il chimico, ovvero Levi stesso, deve risolvere un inghippo lavorativo dovuto alla vendita di una vernice isolante presso una compagnia alimentare russa. Il secondo è invece un montatore prolisso e conviviale, in trasferta per completare un mastodontico mezzo articolato. La lunga conversazione tra i due, dai toni assai colloquiali, sviluppa decine di pretesti brillanti (e assai ironici) per parlare del lavoro. Incredulo di fronte alla quantità e qualità di esperienze raccontate da Faussone, mi sono accorto solo a metà lettura che l’opera fosse a matrice fantasiosa. A fine romanzo, però, mi sono potuto riconciliare con l’idea di Levi di racconto. Spiega benissimo, citando Conrad, come e perché abbia scelto di far parlare un personaggio di fantasia. Ecco come l’autore chiosa “l’invenzione” di Faussone.

“Naturalmente mi mancava il capitano MacWhirr. Appena l’ho raffigurato, mi sono accorto che era l’uomo che faceva per me. Non voglio dire che io abbia mai visto il Capitano MacWhirr in carne ed ossa, o che io mi sia trovato in contatto con la sua pedanteria e la sua indomabilità. MacWhirr non è il frutto di un incontro di poche ore, o settimane, o mesi: è il prodotto di vent’anni di vita, della mia propria vita. L’invenzione cosciente ha avuto poco a che fare con lui. Se anche fosse vero che il Capitano MacWhirr non ha mai camminato o respirato su questa terra (il che, per conto mio, è estremamente difficile da credere), posso tuttavia assicurare ai lettori che egli è perfettamente autentico.“

Più in generale, risulta ancor più coraggiosissima la scelta narrativa di Levi, l’utilizzo del tema principale. Il lavoro. Mi chiedo quanto ci sia di quel cartello “Arbeit macht frei” in questa opera. Opera che, non scordiamo, risulta anch’essa un prodotto. Un lavoro diverso, certo, come spiega benissimo nell’analogia fra il chimico e lo scrittore, ma pur sempre qualcosa di concreto. Forse, come a sottolineare una rivincita a quel cartello, il lavoro può arrivare davvero a ripagare l’uomo, non soltanto per le circostanze divertenti e variegate che esso comporta.

 

INFO UTILI

180 pag , 5 ore di lettura circa.

 

ORIGINI

Attardi Ugo – muratori al lavoro