Peter Cameron – Un giorno questo dolore ti sarà utile

Dalla stazionesono andato a casa di mia nonna a piedi, passando per strade con tante bellecase vecchie, grandi alberi e prati verdi. Davanti a una c’era al lavoro unasquadra di giardinieri messicani, e un ragazzo più giovane di me spingeva avanti e indietro un tosaerba grande come lui. Mentre passavo mi ha guardato emi ha fatto un gran sorriso scoprendo i bellissimi denti bianchi, come se fosseorgoglioso di essere visto lì a tosare l’erba. Gli ho sorriso anch’io e lui miha salutato con la mano. Non ha senso entrare in contatto così con una personae poi andare via. Non lo capisco. Lo strano è che io sono un asociale, maquando entro in contatto con uno sconosciuto – anche se si tratta solo di unsorriso o di un cenno con la mano, che non credo sia considerato un verocontatto ma per me lo è – mi sembra che dopo non possiamo andarcene ognuno perla sua strada come se niente fosse. Per esempio, quel ragazzo messicano comeera finito lì a Hartsdale a tosare il prato, dove viveva, che cosa pensava?Immagino la sua vita come una piramide, un iceberg di cui vedo solo la punta,la punta minuscola, ma sotto la superficie la piramide si allarga, si allargaverso il basso e nel passato, sempre più indietro, tutta la vita gli sta sotto,gli sta dentro, le mille cose che gli sono successe, e il risultato è quelmomento, quel secondo in cui mi ha sorriso. Ho ripensato alla signora cheleggeva la Bibbia in treno. Dov’era adesso? A casa sua? Lo so che non era ilcaso di scendere a Woodlawn per seguirla, ma se lo avessi fatto? Se nella miavita quella donna fosse stata destinata a diventare importante? Credo che siaquesto a farmi paura: la casualità di tutto. Persone che per te potrebberoessere importanti, ti passano accanto e se ne vanno. E tu fai altrettanto. Comesi fa a saperlo? Dovevo tornare indietro a parlare con il ragazzo messicano?Forse era solo, come me, forse aveva letto Denton Welch. Andandomene misembrava di abbandonarlo, di passar la vita, giorno dopo giorno, a abbandonarela gente.

DUE PAROLE

Torno a Cameron dopo brevissima sosta, trovando un altro romanzo piacevole, di buona caratura, che si attesta su alcuni dei temi già trovati precedentemente nell’autore. Si parla ancora di incomunicabilità, veicolandola, questa volta, attraverso l’esperienza adolescenziale del giovane James, diciottenne confuso e apatico. È una scelta precisa, un periodo di crescita attraverso il quale è passato ognuno di noi e che, forse per eccellenza, può farsi vessillo dell’incomprensione reciproca. Rispetto ad Andorra però il campo è molto più stresso e il panorama è assai più delimitato. Il romanzo si svolge fra la casa di Nanette, l’adorata nonna del protagonista, la sua casa e la galleria d’arte presso il quale lo stesso lavora a tempo perso. Il dramma vissuto, che in Cameron ha sempre un accento di implacabile sconfitta, è quello della difficoltà di accettare i passi forzati della vita. James rifiuta di voler iscriversi all’Università e rifiuta di accettare lo svilupparsi di un sentimento amoroso (in questo caso omosessuale). La maturazione arriva attraverso un processo di auto analisi, coadiuvato dalle figure chiave, tutte femminili. I satelliti della coscienza che gravitano attorno al giovane e spero adolescente sono infatti la sorella Gillian, la madre, la nonna Nanette e la psicoanalista Auder. Tutte concorrono a plasmare e far fiorire l’uomo che è in James. Un romanzo formativo turbinoso e tenebroso, come il cuore di ogni giovane adolescente. Un altro ottimo mattone nel palazzo narrativo di Cameron, un autore che sto scoprendo sempre più piacevolmente, capace di raccontare il presente senza inutili protagonismi narrativi e con enorme capacità di osservazione.