
L’intera questione è molto simile a quella che nel corso degli anni ha provocato un acceso dibattito all’interno della nostra categoria professionale: che cos’è che fa “grande” un maggiordomo? Ricordo molte ore di piacevole discussione su questo tema, seduti attorno al fuoco nella stanza della servitù, alla fine della giornata. Noterete che io dico “che cosa”, anziché dire “chi” è un grande maggiordomo, perché non ci fu mai alcuna vera discussione circa l’identità di quegli uomini che rappresentavano i modelli da seguire per la nostra generazione. In altri termini, mi riferisco qui a individui del calibro di Mr Marshall di Charleville House o Mr Lane, di Bridewood. E se avete mai avuto il privilegio di incontrare uomini del genere, saprete senza alcun dubbio quali siano le qualità che essi possiedono e alle quali io mi riferisco. Ma voi comprenderete certamente che cosa intendo quando dico che non è per nulla semplice definire in che cosa consista questa qualità. Per inciso, ora che ci penso meglio, non è del tutto vero che non vi fossero dispute su chi erano i grandi maggiordomi.
DUE PAROLE
La meticolosità del racconto, specchio della meticolosità con cui il protagonista si prende cura del suo lavoro, è la luccicante prigione di cristallo in cui viene intrappolata un’illusione, quella della libertà. Una vita dedicata al lavoro, un’ossessione totale di perfezione. Cerimonioso, raffinato, ricercato, fino all’ottuso eccesso di zelo e di distacco dal mondo, Mr. Steven racconta le sue memorie nella forma di una gigantesca parentesi fra l’onnipresente lavoro, lo iato in cui si è concesso una vacanza in macchina con un viaggio lungo le strade del Whiltshire. L’anestesia servile di un uomo votato a soddisfare gli ordini del suo padrone. Questa dimensione non è propria della modernità (cioè dello stato in cui l’uomo moderno pensa ora di vivere) e scardina il pensiero borghese dell’emancipazione, di quell’utopia che vede l’uomo emanciparsi con il suo lavoro. Il racconto però evidenzia come lo stato sociale dei maggiordomi, quasi un sottobosco subumano, una razza meschina e domata, viva parallelamente rispetto al resto dell’umanità. Sia il padre che l’amore impossibile di Mr. Stevens appartengono infatti alla stessa brigata. Vale lo stesso per i membri della classe dirigente, per i “padroni” dei maggiordomi, destinati a comportarsi e subire gli stereotipi del loro status, impossibilitati ad uscirne. Sebbene la prosa sia raffinata, e il romanzo sicuramente ben orchestrato, ho trovato noiosa e pedante questa cattedrale barocca della memoria. Come un lungo requiem di cui possiamo udire e godere solo dei suoi squilli rimanendo intorpiditi da tempi narrativi che non appartengono più a questo secolo.