Davit Gareja 30 Agosto

L’alba ci ha chiamati più volte senza riuscire a svegliarci. E’ arrivata puntuale, come sempre fa quando decide, ma noi la abbiamo ignorata. Abbiamo goduto della luce modesta che si leva nella camera facendoci cullare come pupi. Siamo agli sgoccioli, è tempo di partire per tornare e siamo pigri, abbiamo dosato le energie al centimetro spremendole fino all’ultima goccia. Siamo consumati. Questa notte inizierà un altro viaggio, tutto si srotolerà nuovamente sotto le coperte più tiepide dello stivale. Ci siamo tenuti la tappa più comoda da affrontare in giornata da Tbilisi. Si tratta del monastero di Davit Gareja, un affascinante complesso sacro nel mezzo dei paesaggi semi desertici del Caucaso centrale. Nel pomeriggio, come si usa nell’ultima tappa del Giro d’Italia, una passeggiatina d’onore per la capitale al fine di scrollarci di dosso le tensioni e la stanchezza, e realizzare che è giunto il momento di fare l’ultima zainata. Ripercorrendo le strade che ci hanno ricondotto qui la memoria comincia a tessere la sua trama caleidoscopica. I pascoli, brulli e dorati, che ci hanno accompagnato per un’infinità sulle cime del dinamismo, sono ora addomesticati, piatti, domati. Felicemente distesi. La strada è retta, non più tortuosa. Il sole splende ancora alto, impossibile da indebolire. Nel suo bagliore è splendido accecarsi e il bianco diventa tutto ciò che non mi è stato possibile raccontare. Perché nel bianco tutto si perde, perché nel bianco c’è ogni colore. Ci sono ancora riflessi che spuntano nelle increspature del cielo, sono rimasugli di gesti non detti, emozioni non scolpite, domande non risolte. Piano piano tornano a galla, emergono, mi rendo conto di non avervele raccontate. Le larghe tese dei cappelli dei gendarmi di Yerevan, la loro corruzione, la scoperta degli uomini che vendevano aragoste invece di chiedere abbracci, il sapore dell’acqua bicarbonata e ulcerante di Borjomi, le città che si svegliano alle dieci del mattino, la puzza della nostra pelle in Armenia… ce ne sarebbero molte, molte ancora. Anche adesso che sediamo tutti e tre qui al baretto dove sono solito redarre i diari ci sarebbe da raccontare ciò cui assistono i nostri occhi. Due signori ad una decina di metri da noi si stanno azzuffando in mezzo alla strada. Si prendono per il collo ma uno dei due sembra difendersi senza voler reagire. L’altro, il più piccolo, lo incalza cercando di portare i pugni al suo volto. La sua corporatura glielo impedisce. L’energumeno non cede e prende delle mattonelle da un cantiere così da scagliarle addosso al tizio più tarchiato all’altezza delle reni con tutta la forza di cui dispone. Devono fare molto male. L’offeso non si scompone alla sassaiola, vuole solo andarsene, glissare, e lo fa con una maschera di rammarico così da chetare anche l’infuriato. Già, è strano il mondo, strana la gente. Potrei continuare per l’eternità a spiarla, scoprirla e raccontarvela senza stufarmi mai. Ma ora è davvero tempo di veleggiare verso Itaca.

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