Fabio Stassi – La rivincita di Capablanca


Di tutte le partite che aveva giocato, manteneva memoria. Un pomeriggio, a Mosca, aveva stupito tutti, dettando a una giornalista le mosse esatte di un incontro che aveva vinto all’età di sei anni. Il padre lo aveva tenuto lontano dagli scacchi per un po’, concedendogli soltanto qualche partita serale, in cucina. Temeva che ne facesse un’ossessione ed era imbarazzato dal suo talento. Per quanto intelligente, gli scacchi non erano che un gioco, con il quale soltanto i campioni o gli aristocratici potevano immaginare di vivere. Ma una domenica, José Raul uscì dalla porta del retro della loro casa, saltò il cancello del giardino e si diresse verso il Circolo. C’era stato appena una volta, due anni prima, ma ricordava esattamente la strada. Lo raggiunse in un’ora, quasi di corsa. Il pomeriggio della domenica era sempre affollato. Quando lo videro entrare, pensarono che si fosse perso. Cosa vuoi, ragazzo?, gli chiese uno sconosciuto, che stava per proclamare, con estrema soddisfazione, un matto al suo avversario. Sono venuto per giocare. Tutti i presenti scoppiarono a ridere. Ve lo avevo detto che sarebbe stata una domenica divertente, disse lo sconosciuto. Siediti pure. Un attimo e sono da te. Aspirando a pieni polmoni il fumo della sigaretta, terminò la pratica che aveva in corso. Io punto sul bambino, disse uno, ridendo. Allestirono il tavolo, presero la sedia più alta che ci fosse in sala e sollevarono José Raúl dalle ascelle, depositandolo su due cuscini, l’uno sopra l’altro. Da dove vieni, malandrò?, gli chiesero. José Raúl non rispose. Fissava la scacchiera come se non ci fosse altro in quella stanza. È davvero entrato nella parte. Non disturbiamolo, shhh… Soltanto dopo molte risate e molte parole, lo sconosciuto si sedette al tavolo. Si erano divertiti abbastanza, non restava che la parte più noiosa. Forza, ragazzo, torna a casa, ci vediamo qui tra qualche anno, va bene? Non te la prendere. La prima mossa è la sua, disse José Raúl. Senti, senti, fa proprio sul serio. D’accordo, l’hai voluto tu. Dopo poche mosse fu chiaro che non si trattava propriamente di una monellata. Ogni voglia di scherzare era scomparsa dal volto dello sconosciuto. I pezzi si erano disposti in una forma sbilenca, indecifrabile. Il bianco contava su uno scarto di tre pedoni e di una torre, ma non aveva più alfieri né cavalli. Che si fosse giunti a quella strana posizione nessuno riusciva a concepirlo. Toccava al nero. José Raúl alzò con le sue minuscole dita il cavallo e chiamò uno scacco, insinuandolo tra regina e torre, grazie alla protezione dell’alfiere. Il re bianco si rifugiò sull’ultima traversa. José Raúl portò una torre al centro. Lo sconosciuto gli mangiò un alfiere e riprese fiducia. Ma la torre di José Raúl corse in fondo a dare un secondo scacco. Il re fece un passo, di lato. Ma fu attaccato dalla regina. Un altro passo. Ostinata scese la torre. Il bianco la fronteggiò con la sua. José Raúl mangiò un pedone. La regina, allora, con sicurezza, tolse di mezzo il cavallo nero. Allo sconosciuto era tornato il sorriso, come se non avesse più davanti un marmocchio di sei anni, ma stesse per sconfiggere Golmayo o Vázquez. José Raúl spostò nell’ultima casa la sua donna e con la sua vocina di cristallo disse per la quarta volta: Scacco al re. Il re, ormai rassicurato, arretrò alle spalle delle sue torri. José Raúl vi pose sfrontatamente la sua davanti, per il quinto scacco. Alla fine non è che un bambino, pensarono in molti. Testardo come un bambino. Insolente come un bambino. Lo sconosciuto cominciava a stancarsi. Indietreggiò ancora. Ma la donna tagliò il campo, sulla verticale centrale, sbarrandogli la strada. Non gli restava che retrocedere, finché non ne avesse avuto a noia. La donna s’involò sull’altra diagonale e gli bloccò nuovamente il passo con un settimo scacco. Lo sconosciuto provava una strana inquietudine. Rincasò prudentemente di uno spazio. Subì l’ennesimo affronto della torre avversaria, pensò di essersi messo definitivamente al sicuro vicino alla sua regina, ma la donna nera tornò al centro, per mettersi di traverso a lui. Senza alcuna emozione, José Raúl disse: Scacco matto. Nessuno aveva mai visto in quella sala un simile finale. José Raúl, sacrificando un cavallo e un alfiere, in inferiorità di pezzi, aveva preso l’iniziativa e non l’aveva più abbandonata sino alla conclusione. Al Circolo stentavano a crederci. Era stata una manovra di una forza trascinante, obliqua, imprevedibile. La giornalista russa che vent’anni dopo lo ascoltava dettare le mosse, ebbe quasi il sospetto che quella partita Capablanca la stesse inventando per lei, e che niente di quello che raccontava potesse essere mai accaduto, e che forse non era mai esistito un bambino con quel nome, né un’isola che si chiamasse Cuba, né la città dell’Avana, e che tutto fosse soltanto una fantasia, lo scherzo luminoso e astuto di un seduttore.

DUE PAROLE


Stassi mette in prosa la vita romanzata del campionissimo Jose Raul Capablanca, leggendario campione del mondo di scacchi e mito della disciplina, idolo di noi appassionati. Il romanzo gioca sulla rivalità che quest’ultimo sostenne nel corso della sua folgorante carriera, quando dall’olimpo degli dei scacchistici dovette scendere sulla terra per scoprirsi umano. La sua nemesi, il micidiale Alexander Aljechin, sarà lo spettro che accompagnerà per tutta la vita la “maledizione” di Capablanca. Ovvero quel talento e quella ossessione dalla quale é impossibile affrancarsi e alla quale, ovviamente, soccomberà. Il declino, inesorabile nemico dell’uomo che ordisce le sue trame con la comlicità del tempo. Sebbene sia opportuno precisare che il romanzo non aggiunge nulla al panorama della letteratura scacchistica narrativa, è sempre delizioso ripercorrere e speculare sulle vite dei grandi personaggi che lo hanno popolato. L’alone di misticismo é alimentato dalla rivincita che il protagonista avrebbe avuto nei confronti del suo acerrimo nemico (e contestualmente amico di lungo corso). L’elemento più fantasioso si scopre in chiusura di romanzo, quando si prospetta che ad uccidere Aljechin, il russo al soldo dei nazisti trovato morto in circostanze assai sospette nella sua camera di hotel in Portogallo, possa essere stato un giovane emissario, un bambino allenato da Cabalanca stesso al suo capezzale di morte per concretizzare la sua vendetta. Nello spegnersi di entrambi i campioni può essere dunque così sepolta anche la rivalità che li ha accompagnati. “La notte prima dell’incontro di Rio Preto, nonostante Olga gli dormisse accanto, la solitudine gli ronzava nelle orecchie come una marea, il rombo ostinato e prigioniero di una conchiglia. Lo stesso rumore che doveva avvertire anche Aljechin a Parigi o dovunque fosse. Non riusciva a dormire, ma non soltanto per il vino bevuto. Gli era tornata in mente una domanda che si erano fatti una sera, per gioco, a Pietroburgo. Cosa sogna un pedone?, gli aveva chiesto il russo, e allora era parsa a entrambi una questione divertente. Adesso, a tanti anni di distanza, la faccenda gli suonava più misteriosa, e ostile. E per poco, in questa camera arredata con umiltà, ebbe l’impressione di aver capito. Cambiare natura. Raggiungere l’ottava traversa. Non rassegnarsi all’infelicità del proprio stato. La chiave di tutto era nell’ansia di una metamorfosi, nel sogno dei pedoni di diventare regine.”