
Powell sospirò. ― Inseriamo il cervello, Mike. Donovan aprì un contenitore accuratamente sigillato e trasse dal bagno d’olio un secondo cubo. Aprì anche quello e dall’imbottitura di gommapiuma tirò fuori un oggetto sferico. Lo maneggiò con estrema cautela, perché era il meccanismo più complesso che l’uomo avesse mai creato. Dentro la sottile “pelle” costituita da lamine di platino c’era un cervello positronico nella cui struttura sofisticata e instabile erano impressi precisi circuiti neuronici che fornivano a ciascun robot l’equivalente di un’istruzione prenatale. Il cervello si incastrò perfettamente nella cavità del cranio del robot. L’apertura fu chiusa da una lamina di metallo azzurrastro, che venne saldata con una piccola torcia atomica. Powell e Donovan applicarono con cura gli occhi fotoelettrici, e dopo che li ebbero avvitati li coprirono con sottili lamelle trasparenti di plastica dura come l’acciaio. Il robot aveva solo bisogno ormai del lampo vitalizzante dell’energia ad alto voltaggio. Powell posò la mano sul pulsante e si girò verso Cutie. ― Ora guarda, Cutie. Guarda bene. Il pulsante venne premuto e si udì un ronzio crepitante. I due terrestri si chinarono ansiosi sulla loro creatura. All’inizio il movimento fu appena percettibile: giusto un lieve sussulto all’altezza delle giunture. Poi il modello MC alzò la testa, si puntellò sui gomiti e scese goffamente dal tavolo. Aveva un’andatura ondeggiante e quando provò a parlare, gli uscirono di bocca solo dei suoni inarticolati. Alla fine la sua voce, incerta ed esitante, uscì fuori distintamente. ― Vorrei cominciare a lavorare. Dove devo andare? Donovan corse alla porta. ― Scendi giù da queste scale ― disse. ― Ti sarà poi detto cosa devi fare. Il modello MC si dileguò e i due terrestri rimasero in compagnia di Cutie, che non si era mosso. ― Bene ― disse Powell, sorridendo. ― Ci credi, adesso, che siamo stati noi a costruirti? Cutie rispose secco, senza incertezze. ― No. Il sorriso di Powell, dopo il primo attimo di sbalordimento, si spense a poco a poco. Donovan rimase a bocca aperta e non la richiuse che dopo un certo tempo. ― Vedete ― continuò tranquillo Cutie, ― non avete fatto altro che montare parti già costruite. Siete stati molto abili e, visto che non possedete facoltà razionali, immagino vi abbia guidato l’istinto. Ma in realtà non avete creato il robot. I componenti sono stati creati dal Padrone. ― Senti ― borbottò Donovan, rauco, ― quei componenti sono stati fabbricati sulla Terra e spediti qui. ― Sì, sì ― replicò Cutie, conciliante, ― non mettiamoci a discutere. ― Ma io dico sul serio! ― Donovan si slanciò in avanti e afferrò il robot per un braccio. ― Se tu leggessi i libri che ci sono in biblioteca, capiresti che è la pura verità e non avresti più dubbi. ― I libri? Li ho letti tutti. Le teorie che espongono sono molto ingegnose. ― Se li hai letti ― intervenne Powell, ― cos’altro c’è da dire? Non puoi contestare le prove che portano. Non puoi proprio! ― Ti prego, Powell ― disse Cutie, quasi con pietà. ― Non vorrai che consideri quei libri una valida fonte di informazioni. Anch’essi sono stati creati dal Padrone e sono destinati a voi, non a me. ― Come fai a dirlo? ― chiese Powell. ― Perché io, in quanto essere razionale, sono in grado di dedurre la Verità dalle Cause a priori. Tu, che sei un essere intelligente ma non razionale, hai bisogno che ti venga fornita una spiegazione, ed è esattamente questo che il Padrone ha fatto. Quella di suggerirvi l’idea risibile di mondi e genti lontane è stata certo una strategia a fin di bene. La vostra mente è con tutta probabilità troppo rozza per afferrare la Verità assoluta. Tuttavia, poiché è volontà del Padrone che crediate a quanto è scritto sui libri, non discuterò più con voi. Sul punto di andarsene si girò e disse, con tono cordiale: ― Non prendetevela. Nei disegni imperscrutabili del Padrone c’è spazio per tutti. Anche voi poveri umani avete diritto al vostro posto, e se anche questo posto è di poca importanza, sarete ricompensati quando avrete svolto con coscienza il vostro ruolo.
DUE PAROLE
Partiamo da qui, cioè dalle tre leggi intorno alle quali gravitano tutti i racconti di questo testo:
- Un robot non può recare danno a un essere umano né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano riceva danno.
- Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non vadano in contrasto alla Prima Legge.
- Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché la salvaguardia di essa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge.»
Asimov getta le fondamenta dalle letteratura fantascientifica sulla robotica e anticipa a piene mani dei temi che sono oggi non solo attuali, ma caldi, scottanti. Sempre più, racconto dopo racconto, si fa largo l’ingombranza dell’intelligenza robotica, quel tipo di scienza che ora chiamiamo intelligenza artificiale. Il contesto dell’autore è sicuramente più meccanico di quello che poi il mondo ha conosciuto e partorito (oggi si parla quasi solo e soltanto di algoritmo e non di macchina: l’intelligenza non sarebbe quindi una peculiarità dell’essere, dell’oggetto, ma avrebbe una specie di vita in sé, un nocciolo essenziale in cui viene custodita) ma la centralità del tema rimane pura ed invariata. Si tratta cioè di confrontarsi con le conseguenze del superamento dell’uomo come forma più elevata di essere vivente. Il terremoto che ne consegue è devastante. La sua magnitudo è sproporzionata, direi copernicana, visto che per secoli (dall’umanesimo in poi, e ancor più con il decadimento delle religioni) il posto divino dell’uomo ha preso sempre più assolutezza. Non è un caso che le leggi della robotica esplicitino a chiare lettere la nostra più grande paura: quali limiti è possibile imporre a una creatura più divina dell’uomo? Come si incatena la nuova bestia? Minosse nascose il Minotauro con l’aiuto di Dedalo. E i meandri di un labirinto assomigliano proprio a un cervello, quella scatola così misteriosa che stiamo cercando di capire. Quello che Asimov, con un’invenzione letteraria ha nominato “cervello positronico”. La sede dell’anima, dei sentimenti, dell’intelligenza. In un luogo popolato da questi posti, l’elefante nella stanza non può essere che “il libero arbitrio”. Come può un essere senziente essere privo di volontà? Se i suoi impulsi sono volontari, come può controllare la sua etica rispondendo a una singola, semplice, stupida legge burocratica? Se la prima legge recita “non recare danno a un essere umano” è facile vedere come questa dichiarazione sia piena di lacune. Asimov pone e mette alla prova il concetto (si pensi alla rivolta dei robot minatori guidati dal capo-robot con la prima legge modificata). In alcuni casi la risposta è semplice, simile al comma 22: un paradosso per cui solo la pazzia può sopravvivere. Spesso, nel libro, il raggiungimento della follia porta la macchina (sic, macchina) all’autodistruzione. Come se un’entità pensante non potesse “funzionare” (e quindi vivere) senza la sua verità. La filosofia ci ha però insegnato come i confini della verità siano molto sottili. Ma soprattutto: arbitrari! Ecco dunque il problema della tanto profusa libertà di questo arbitrio. Chi e come, e quale tipo di intelligenza, potrà ammaestrarlo?