
A Benedetta non sono riuscito a smettere di pensare, poi una volta l’ho vista, poco tempo dopo: cammino per corso Matteotti dritto verso corso Vinzaglio, agli archi occidentali della mia prima terra, e passa un pullman giallo carico di graffi e varici, diretto ai mercati dei giorni feriali o al lavoro degli uffici e delle pulizie. Con un punto luminoso dietro un finestrino, che mi guarda, si alza e sorride: ed era bella, così bella che io. No, non l’avrei mai dimenticata e tutto in silenzio le avrei dedicato e alla fine sarebbe tornata, in una regione innocente da qualche parte, a ovest di certe faccende urgentissime che avevo da sbrigare, una regione dove avremmo capito tutto di noi due, e soprattutto che eravamo in due. Allora le sorrido e alzo la mano e lei s’illumina ancora e ride e manda un lampo, e tutta l’aria trema e ronza, e allora lei solleva il neonato per farmelo vedere. Bene. Però io sto ancora pensando che si esce dalla parte che si vuole, quando si vuole, si torna indietro anche, se si vuole. Bene allora, cerchiamo di stare all’altezza degli alti orizzonti a cui aspiro: per prima cosa, decido d’imparare a bestemmiare. Non è difficile: il primo è stato Dino, occhiali spessi, giaccone a quadri, stuzzicadenti in bocca, che ormai tiene sempre nei piedi degli scarponi pesanti e ai collettivi gli piace saltare a piedi pari su una scrivania e fare il botto, accompagnato da un bel porcodìo. Non è difficile, prova un po’: porcodìo, viene, resta attaccato. C’è Pasino, il biondo, alto, calmo, diafano e rilassato, ex caposquadriglia delle Volpi, che fa più fatica, non gli viene proprio – bello scandito non dev’essergli mai venuto nella vita, neanche dopo – allora fa la faccia simpatica, con i sopraccigli all’insù e un sorriso che prende le distanze, e ridacchia tutto d’un fiato: porchiddìoporchiddìoporchiddìo. Io invece divento bravo in fretta, ho talento. Le strade continuano a buttare nebbia e neve, e si aprono migliaia di porte e sui fili tra quegli interni colorati cammino leggero come un ragno equilibrista, Alice nel paese delle progressive meraviglie.
DUE PAROLE
Si racconta con la frenesia e l’impeto propri dei giovani, quel periodo storico di un’Italia che entra in corsa negli anni ottanta e che vede disgregarsi (questo abbracciata al mondo intero) i valori che fino ad allora l’avevano dominata. Quel sano e chiarissimo antagonismo fra le parti, fra l’essere un “comunista” e l’essere di destra, o semplicemente dell’altra parte. Sono gli ultimi anni in cui la distinzione è ancora perseguibile, in cui i valori culturali, sebbene offuscati dall’adolescenza, risultano distinguibili ed è quindi relativamente semplice sceglierli, cucendoseli addosso. L’autore raccoglie il tutto in un caotico e incalzante testo autobiografico, raccontandosi in prima persona e incarnando ciò che molti altri giovani come lui hanno vissuto durante quegli anni. È tangibile il senso di trasporto e leggerezza che Rastello riesce a fare emergere dal testo. Adorabile l’ingenuità di chi ancora spera nel futuro “La mia definizione l’ho trovata, eccola: un bravo compagno è uno che se il mondo lo progettasse lui io ci vivrei bene”. L’ingenuità è dunque contrapposta all’oscuro e profondissimo baratro della verità italiana. Sono anni di impegno, di lotta, di accesa frizione politica che passano per la strategia della tensione attaverso i valichi di un Italia che doveva ancora scegliere da che parte del mondo stare. Il richiamo oscuro dell’occidente è ciò che serpeggia, che accomunato alla figura del padre arruolato nelle forze dell’ordine, rappresenta la mano dura e violenta – e spesso sporca – dello stato. Il substrato culturale della politica, quel blob che ha dovuto lottare per ovattare e placare anni micidiali e che è sfociato poi nella controrivoluzione culturale di stampo democristiano. L’impossibilità di realizzarsi calza a pennello con un lasso temporale claudicante, ancora troppo giovane per portare i segni del sessantotto e ormai troppo vecchia per i rampanti anni novanta, lì alle porte. E’ un romanzo che ha molto in comune con un’altra grandissima lettura che ho incontrato recentemente, ovvero “Generation X”. Il suo simbolo distintivo, però, è un’italianità pura e fotografica. La scelta stilistica di mischiare i piani temporali è prodromo di quello che sarà un grande cavallo di battaglia della letteratura post-modernista ma il testo risulta ancora fruibile e, spesso, di piacevole lettura. Non manca l’ironia, la frenesia. Quello stato di dolore e rabbia classico dell’adolescenza, una lirica lamentosa, spaventata, ma anche magica e sognante “Quella sera finimmo su una panca davanti alle scuole nuove, un giardinetto spelato davanti a un’inferriata e di là il cortile delle scuole, bottiglie di birra e bottiglie di birra. Io le tiravo contro la scuola facendo finta che fossero molotov, poi cadevamo sulla panca sbrecciata tenendoci su a tre, Mariella in mezzo. Se uno dei due contrafforti cedeva, crollava sulle cosce di Mariella. E io così ubriaco che mi prende la botta triste, ma mica per le cassette che mi aspettano, no, per l’umanità, per la tragedia di vivere, e sotto un cielo vuoto, e tutte quelle cose che significano soltanto quindici anni e mai una femmina.” Rastello è infine un romantico e questo testo, sua prima opera, racchiude pienamente tutte queste sfaccettature, con la dialettica di un cantautore italiano di quella generazione “E quella sera di fine giugno tornavamo in macchina, quasi brilli, e i miei scherzavano su quanto era bella la figlia di Mariano, ma scherzavano su se stessi, su una donna adulta fra gli adulti, mica su di me. Io pensavo alla rivoluzione e al rimmel di quella lì.”