Mario Vargas Llosa – La città e i cani


Lo Schiavo era immobile e, mentre Paulino gli allentava la cintura e gli apriva i pantaloni, continuò a guardare il cielo. Alberto girò la testa; la tettoia era bianca, il cielo era grigio, nelle sue orecchie c’era una musica, il dialogo delle formiche rosse nei loro labirinti sotterranei, labirinti con luce rossastra, una luminosità rossastra che oscurava gli oggetti e la pelle di quella donna divorata dal fuoco dalla punta dei piedini adorabili fino alla radice dei capelli tinti, c’era una gran macchia sul muro, il dondolio cadenzato di quel ragazzo segnava il tempo come un pendolo, radicava la stanzetta al suolo, impediva che si innalzasse nel cielo e precipitasse nella spirale rossastra di Huatica, su quella gamba di miele e di latte, la ragazza camminava sotto la pioggia, leggera, graziosa, agile, ma questa volta il fiotto vulcanico era presente, installato in qualche punto della sua anima, e cominciava a crescere, a tendere i suoi tentacoli nei corridoi segreti del suo corpo, scacciando la ragazza dalla sua memoria e dal suo sangue, e segregando un profumo, un liquore, una forma, sotto il suo ventre che le sue mani ora stavano accarezzando e improvvisamente saliva qualcosa di ardente e di dominante, e poteva vedere, sentire, provare, il piacere che aumentava, fumido, diramante tra un intrico di ossa e muscoli e nervi, verso l’infinito, verso il paradiso dove mai sarebbero entrate le formiche rosse, ma in quel momento si distrasse, perché Paulino ansimava e si era buttato a terra lì vicino, e il Boa diceva parole affannose.

DUE PAROLE

Un libro pieno di vita, uno di quei romanzi che partono dalla verità del sangue, dello sperma e delle ossa per descrivere l’affascinante natura umana. Se lo paragoniamo a tre grandi libri formativi e in qualche modo simili: “Ragazzi di vita”, “Niente di nuovo sul fronte occidentale” e “I turbamenti del Törless”, troviamo quel filo comune, quel trait-d’union che accomuna le storie di giovani uomini decisi a diventare adulti attraverso la rigida educazione della violenza moderata dalla società. Qui la gabbia sociale, come per il Törless, è l’accademia. I cani, i cadetti, sembrano doversi formare per diventare bestie peggiori e non uomini migliori. In accademia c’è spazio per tutti gli antipodi nello spettro umano. Entrambi i poli si attraggono. È quindi naturale che si possano alternare violenze sessuali, abusi (persino ad animali) e incomprensione della pietà, a sentimenti di amore, idillio e altissimo cameratismo. Come per il fronte orientale nemmeno qui compare un Dio. L’autorità è quel valore caduto dal cielo della gerarchia militare, cucito sulla loro pelle, che i giovani uomini si trovano a rispettare per fede ma che contemporaneamente combattono per temperamento (sono barbariche, infatti, le faide fra il quarto e il quinto anno, per esempio). È notevole pensare alla finitura stilista dell’autore se teniamo presente che questo sia, a tutti gli effetti, il suo primo romanzo. Ecco, si nota sicuramente una certa spavalderia giovanile (probabilmente non lontana dalla stessa che Vargas Llosa descrive dei suoi “cani”) che rende il testo complesso e di non sempre liscissima lettura. Lo stile passa spesso dalla prima persona alla narrazione onnisciente, per poi essere inframezzato da ragionamenti o ricordi personali, che si mescolano nel torpore della lotta psicologica dei giovani militari. I sentimenti non sono quindi un lucido flusso che proclive verso l’armonia, bensì un tumulto incestuoso che genera quel torpore e quella confusione distintivi dell’adolescenza. L’utopia formativa è alta, rasenta l’insuccesso costante di una società (o di un Circolo, per dirla alla maniera dei cadetti) di formare persone con valori solidi e sani. Usando le parole del tenente Gamboa “una buona metà vengono mandati qui dai loro genitori perché non diventino banditi, e l’altra metà perché non diventino finocchi”. Il risultato è ovviamente duro, arcaico. L’aspettativa di direbbe quindi bassissima. Sebbene salvi i giovani da queste “disgrazie” ne inocula il senso contro-culturale, si cerca cioè di curare la violenza col bastone e il perbenismo intellettuale con le brutalità corporali. Da metà testo in avanti il romanzo deve fare i conti con il terribile incidente al Poeta in un’esercitazione militare. In questo guazzabuglio di corpi e terra e sangue, l’uomo si confonde con la l’animale. È quasi commovente il rapporto fra il Boa (narratore superdotato della seconda parte del romanzo) e la cagna Malficata, con l’incessante ritorno di quest’ultima al suo amico-padrone nonostante le torture. Questa incoscienza, ma soprattutto questa recidività, è propria della natura, della sua noncuranza e del suo eterno ritorno. L’uomo è posto sempre allo stesso livello dell’animale, della fiera, perché ne è parte completa e inscindibile. L’origine dell’umanità è dai suoi intestini prima che dalle sue sinapsi.