Vardzia 28 Agosto

Si pensa sempre di aver qualcosa da dire in qualsiasi situazione e con qualsiasi persona e in qualsiasi momento. Fondamentalmente, lo si fa perché ci si crea un’opinione su tutto. E grazie a Dio, direi anche. Quando ci capita di sentire qualcuno parlare andiamo per la maggiore verso due casi. “Senti tu questo imbecille che idiozie dice”, nella peggiore, oppure cadiamo nel fascino della parlantina e ne rimaniamo ammaliati. È insomma molto difficile estrarre un significato da tutti i suoi significanti, ne ho spiegato brevemente uno, ieri, tra i motivi principali. “Dire” è una cosa molto complicata e forse nemmeno così utile. “Ascoltare” invece è semplicissimo, e talmente funzionale da esser quasi pericoloso. Mi ritrovo dunque molto stupito nell’essere ancora qui ad ascoltare me stesso, voi con me, interrogandomi sull’aver o meno ancora qualche colpo in canna, o voce nelle corde. Se fossi ad uno di quei comizi di curiosoni dove il più bravo è quello con l’occhio più lungo, non avrei dubbio alcuno nello sbilanciarmi: “Mi par chiaro, questo è un cretino! È venti giorni che è dietro a parlare!” ma il viaggio un po’ mi tutela, regala spunti, e dal pulpito georgiano continuo a buttare giù paesaggi e pensieri. Oggi la giornata è frenetica. Lasciamo Tbilisi di mattino presto, dobbiamo raggiungere una città impronunciabile chiamata Akhaltsikhe, capoluogo di una regione impronunciabile chiamata Samtskhe-Javakheti. Siamo diretti a Vardzia costeggiando la Turchia, e la strada per arrivarci non è affatto comoda. Inoltre non abbiamo nessuna prenotazione in mano e dobbiamo imporci un ritmo serrato visto che ormai i giorni stanno per scadere. Sulle quattro ore e rotte di percorso verso la prima destinazione il sonno questa volta non mi stende, malgrado il paesaggio non sia dei più suggestivi. Sfrecciando rapidi rimango colpito solo da una cosa. Un pastore seduto sotto ad un albero che si ripara dalla canicola. Siamo molto lontani, ma vedo la sua testa seguire il nostro passaggio e ciò mi è sufficiente a scambiare le nostre diversità. Come il Dire e l’Ascoltare, ci siamo incrociati per un attimo, incuriosendoci a vicenda delle nostre incompatibilità. Lui, isolato, calmo e serafico, a godersi la sua terra che conosce da anni. Io, frenetico, accompagnato e furtivo, a spiare un posto per cui passo per la prima volta in vita mia. Eppure ci siamo visti, in quella frazione di secondo ci siamo visti e annusati e sentiti. Anche se non credo che ciò abbia sprigionato in lui lo stesso sorriso del sottoscritto. Arrivati ad Akhaltsikhe prima del mezzogiorno che ci rincorre, non abbiamo tempo di pranzare come ormai è occorso da parecchi giorni a questa parte. Fermiamo una camera nel primo hotel libero e andiamo alla ricerca di un altro tassista che ci possa guidare verso l’altra tappa. Troviamo un signore dall’aspetto pacifico e dal largo sorriso, la barba un po’ incolta e delle scarpine blu ben allacciate. Ci conduce per il fiume Mtkvari dove brulle colline si riposano lungo il suo letto e dopo un’altra ora e mezza di marcia siamo a destinazione. Vardzia è una cittadina monastero ricavata interamente da una parete nella roccia. Ha poco a che vedere con la tappa armena di Garni, qui le camere monastiche superano il centinaio, strappando al monte qualcosa come più di quattrocento cellette nella bollente pietra ed una dozzina di altrettanti luoghi di culto. La realizzazione più affascinante è la chiesa principale, completamente nascosta dentro la montagna. Dalla chiesa, un oscuro tunnel claustrofobico percorre le viscere della montagna per girare intorno al luogo sacro. Percorrendolo si prova la piacevole sensazione del sollievo a quel caldo infuocato che brucia il mondo poco lì fuori, e l’inquietante impressione di essere piccoli vermi senza destinazione, persi nella fede, forse. E’ turistico, inflazionato, ma assolutamente spettacolare. Sulla via di rientro il buon guidatore giunge le mani a punta e ci fa intendere se vogliamo vedere un altro monastero, di poco lontano. “No grazie”, diciamo. Siamo esausti, arresi alla bellezza, affamati. E forse anche un po’ con il naso rivolto verso casa.

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