Leonardo Sciascia – Il consiglio d’Egitto

Quando toccavano delle cose del mondo, il monaco pareva addirittura un personaggio venuto fuori dai Fioretti; anche riguardo alle donne, di cui aveva sì pratica, inconfessata, nascosta, ma quanto più vi si infognava finiva con lo smarrirne quella vaga e trepida fantasia, quel desiderio, quel sentimento di cui invece don Giuseppe Vella, più maliziosamente, godeva. “Voi non credete che le abbia fatte il diavolo?” domandava il monaco. “Ma no“ sorrideva don Giuseppe ”sono anch’esse opera di Dio. E che merito avremmo noi, ad astenercene? Astenersi dalle cose diaboliche è facile, il difficile è astenersi da quelle che Dio stesso ha fatto e che, per suo amore, ci chiede di non toccare.“ “Forse avete ragione” diceva il monaco “avete senz’altro ragione, con la dottrina alla mano: ma io trovo che non c’è poi tanto senno, in questa storia… È come negare gloria a Dio in una parte della sua creazione…” “Noi diamo gloria a Dio per ogni parte della sua creazione, anche per la donna; lodiamo la donna in quanto bellezza, in quanto armonia, la esaltiamo come genitrice… Solo che di lei facciamo oggetto della nostra rinuncia, del nostro sacrificio: per essere soltanto sacerdoti di Dio, integralmente suoi ministri…” “E voi ci riuscite? Non dico a fare a meno della donna: ma a non pensarci, a non chiamarla nei sogni, a non tirarvela sopra, nei sogni, come una coltre di delizia…” “Non ci riesco” diceva don Giuseppe chiudendo gli occhi. E il monaco se ne confortava. E come era di labile memoria e soggetto al quotidiano rinnovarsi del pentimento, del rimorso, spesso riprendeva, da un qualsiasi punto, lo stesso discorso. Della fede, nell’oscurirà della sua mente, del suo cuore, baluginavano cocci di superstizione: don Giuseppe lo sapeva bene, e perciò trovava le parole più adatte ad acquietarlo. A volte gli venivano persino dei rimorsi su quel suo lavoro di amanuense, di fonditore. “Non faccio una mala azione?” chiedeva. “Ed io?” rimbeccava don Giuseppe. “Beh, anche voi” rispondeva timidamente, ad occhi bassi, il monaco. E allora don Giuseppe pianamente gli spiegava che il lavoro dello storico è tutto un imbroglio, un’impostura: e che c’era più merito ad inventarla, la storia, che a trascriverla da vecchie carte, da antiche lapidi, da antichi sepolcri; e in ogni caso ci voleva più lavoro, ad inventarla: e dunque, onestamente, la loro fatica meritava più ingente compenso che quella di uno storico vero e proprio, di uno storiografo che godeva di qualifica, di stipendio, di prebende. “Tutta un’impostura. La storia non esiste. Forse che esistono le generazioni di foglie che sono andate via da quell’albero, un autunno appresso all’altro? Esiste l’albero, esistono le sue foglie nuove: poi anche queste foglie se ne andranno; e a un certo punto se ne andrà anche l’albero: in fumo, in cenere. La storia delle foglie, la storia dell’albero. Fesserie! Se ogni foglia scrivesse la sua storia, se quest’albero scrivesse la sua, allora diremmo: eh sì, la storia… Vostro nonno ha scritto la sua storia? E vostro padre? E il mio? E i nostri avoli e trisavoli?… Sono discesi a marcire nella terra né più e né meno che come foglie, senza lasciare storia… C’è ancora l’albero, sì, ci siamo noi come foglie nuove… E ce ne andremo anche noi… L’albero che resterà, se resterà, può anch’essere segato ramo a ramo: i re, i vicerè, i papi, i capitani; i grandi, insomma… Facciamone un po’ di fuoco, un po’ di fumo: ad illudere i popoli, le nazioni, l’umanità vivente… La storia! E mio padre? E vostro padre? E il gorgoglio delle loro viscere vuote? E la voce della loro fame? Credete che si sentirà, nella storia? Che ci sarà uno storico che avrà orecchio talmente fino da sentirlo?” don Giuseppe saliva ad impeti da predicatore: e il monaco ne aveva mortificazione, disagio.

DUE PAROLE

Ci si inchini, una volta ancora, di fronte a questo grande scrittore. Che l’Italia, forse ancor più la Sicilia, si prostrino al giudizio ironico e tagliente, se pur sublime, di questo autore d’inarrivabile statura. Che lo ringrazino nei secoli per averci regalato dei ritratti quanto mai efficaci, degli abiti dall’impeccabile cadenza cuciti addosso a quella grossolana pelle italico-meridionale, alle nostre piccolezze dalle aberranti fatture. Si lodi questo grande sarto per la precisione delle sue forme. Così come per altri scritti – riconoscendo, fra l’altro, questo romanzo come una delle sue più riuscite espressioni – lo scrittore siciliano sfrutta una semplice storiella provinciale per mostrarci ciò che siamo a nudo. La realizzazione stessa della truffa, o bufala d’Egitto, è simbolica per quel movimento dal microscopico al popolare. Il provincialismo di Sciascia si trasforma sempre e comunque in lezione tout court. Ne “il consiglio d’Egitto” v’è infatti tutta la dinamica borghese per eccellenza. La piccolezza di un piccolo abate in cerca di gloria e successo è un sassolino che, rotolando, comincia ad ammantarsi di tutte gli stereotipi sgradevoli che siamo in grado di accumulare. L’insuccesso della giustizia, il perpetrarsi della menzogna, la fama di successo, l’ignoranza e la miscredenza del popolo e della borghesia. Giù giù fino a fondo valle, fino al fallimento del giudizio, alla crudeltà dei turlupinati ignoranti, al bigottismo e alla vendetta.  “In effetti“, dice l’avvocato Di Blasi ”ogni società genera il tipo d’impostura che, per così dire, le si addice. E la nostra società, che è di per sé impostura, impostura giuridica, letteraria, umana… Umana, sì: addirittura dell’esistenza, direi… La nostra società non ha fatto che produrre, naturalmente, ovviamente, l’impostura contraria…”.
Il tutto propinato con una prosa e un’arte letteraria sopraffina. Evitando di parlare dello stile impeccabile, si noti, per celia, la finezza con cui Sciascia insinua il desiderio sessuale come esempio supremo di visceralità. Il desiderio che spinge l’uomo a diventare bugiardo. La mela del paradiso terrestre. In effetti, aveva cominciato dalla donna a falsificare il mondo: traendo da quel che di lei vedeva, intravedeva, indovinava gli elementi d’avvio a un fantasticare inesauribile e, con gli anni, perfetto. E attraverso la donna, attraverso la fantasia che aveva della donna, decisamente era pervenuto a quella fantasia del mondo arabo cui il dialetto è le abitudini della sua terra, il suo sangue oscuramente, lo chiamavano. «Solo le cose della fantasia sono belle.” Un grande romanzo, allegoria della Sicilia e delle nostre radici.