La faccio breve: ho deciso di uccidermi. Morte neonatale, un omicidio a tutti gli effetti, dovuto alla scriteriata aggressione sessuale di mio zio ai danni di una donna al terzo trimestre avanzato di gravidanza. Arresto, processo, sentenza, carcerazione. La morte di mio padre parzialmente vendicata. Parzialmente, perché nella gentile Gran Bretagna gli assassini non vengono impiccati. Voglio dare a Claude una bella lezione sull’arte dell’altruismo negativo. Per togliermi la vita mi servirà il cordone, tre giri di mortale viluppo intorno al collo. Sento in lontananza i sospiri di mia madre. Il falso suicidio di mio padre mi sarà d’ispirazione per tentare il mio. La vita che imita l’arte. Nascere morti – pacato ossimoro di una tragedia – ha un suo fascino austero. Ecco, arrivano i colpi contro il mio cranio.
DUE PAROLE
Gli avvenimenti che compongono il romanzo sono, a detta stessa dell’autore, “disastri sono il frutto della nostra duplice natura. Ingegnosa e infantile”. La narrazione infatti, irriverentemente brillante, è raccontata, in prima persona, in maniera quanto mai lucida e improbabile dalla voce narrante di un feto prossimo alla nascita. Mentre nel mondo protetto e ovattato del ventre materno si consuma il racconto, poco più fuori, sempre in un ambiente circoscritto e claustrofobico, si esaurisce la tragedia. Il pargolo ci racconta, usando il corpo materno come amplificatore dell’ambiente circostante (forse metafora della donna come strumento principe di trasmissione del pensiero umano?), come la madre e lo zio, già insozzati da un incesto famigliare, tramano in segreto la morte del padre al fine di accaparrarsi l’eredità della casa-castello che già hanno usurpato. Amleto del ventunesimo secolo, fatemi citare una frase sentita e risentita: la storia si ripete sempre due volte, la prima volta come tragedia, la seconda come farsa. E, a mio avviso, questo è un caso perfetto, sebbene non storico. Dramma moderno quanto mai. «Potrei anche essere confinato in un guscio di noce e sentirmi il re di uno spazio infinito – se non fosse la compagnia di brutti sogni», lamentava l’anti eroe shakespeariano. Recluso a testa in giù nel guscio materno, il narratore di questo thriller ha invece finito lo spazio a disposizione. Sublime, per finezza, la mangiata di take-away danese proprio come omaggio all’opera del grande drammaturgo. Così come l’immondizia e la sporcizia della casa-castello dove vivono e dove tutto si svolge richiama il marcio danese. La mancanza della verità, la costante menzogna degli adulti, degli esseri coscienti “Dal luogo della mia reclusione sono diventato esperto di sogni collettivi. Chi può sapere che cosa sia vero? Fatico io stesso a raccogliere le prove. Ogni affermazione risulta suffragata o invalidata da un’altra. Come chiunque, mi servirò di quel che voglio, di quel che mi fa comodo.” Una bellissima parabola per dipingere la bassezza del mondo adulto. Talmente corrotto e marcescente, da contaminare anche l’ambiente più puro e casto per eccellenza, la vita in germoglio. Il protagonista è costretto ad assistere alla vergogna della madre, partecipando al sesso con l’uomo (il fratello!) che tradisce suo padre e che arriva ad ucciderlo. Assiste alla trama, impotente. Un complesso mistico, ancora più intricate di quelli già noti e stranoti (Edipo e il Giulio Cesare, per dirne alcuni). Un libro sarcastico, divertente e spietato.