Cormac McCarthy – Meridiano di sangue


Toadvine sputò nel fuoco. Il giudice continuò a scrivere, poi chiuse il quaderno e lo posò di fianco a sé, premette le mani l’una contro l’altra e se le passò sul naso e sulla bocca e infine se le appoggiò sulle ginocchia a palmo in giù. Qualunque cosa esista, disse. Qualunque cosa esista nella creazione senza che io la conosca esiste senza il mio consenso. Si guardò intorno nella foresta scura dove bivaccavano. Accennò col capo agli esemplari che aveva collezionato. Queste creature anonime, disse, possono sembrare poco o niente nel mondo. Eppure l’esserino più piccolo può divorarci. Qualunque minuscola creatura stia sotto quella roccia, al di fuori della conoscenza umana. Solo la natura può rendere schiavo l’uomo, e solo quando l’esistenza di ciascun essere sarà stata snidata e denudata di fronte a lui, egli sarà davvero il sovrano feudale della terra. Cos’è un sovrano feudale? Un padrone. Un padrone o signore supremo. Perché non chiamarlo padrone, allora? Perché è un padrone di tipo speciale. Un sovrano feudale comanda anche dove altri comandano. La sua autorità revoca le sentenze locali. Toadvine sputò. Il giudice appoggiò le mani a terra. Guardò il suo inquisitore. Questo è il regno cui ho diritto, disse. Eppure in esso ci sono ovunque nuclei di vita autonoma. Autonoma. Perché esso mi appartenga non devo permettere che qualcosa vi accada senza il mio permesso. Toadvine sedeva con gli stivali incrociati davanti al fuoco. Nessun uomo può arrivare a conoscere tutte le cose di questa terra, disse. Il giudice piegò la grossa testa di lato. L’uomo che crede che i segreti del mondo resteranno nascosti per sempre vive nel mistero e nella paura. La superstizione lo trascinerà in basso. La pioggia eroderà gli atti della sua vita. Ma l’uomo che si assume il compito di individuare nell’arazzo il filo che tutto ordisce, in virtù di questa sola decisione si fa carico del mondo, ed è soltanto facendosene carico che egli può trovare il modo di dettare i termini del proprio destino. Non vedo cosa c’entri questo col fatto di catturare uccelli. La libertà degli uccelli è un insulto per me. Li metterei tutti negli zoo. Bell’inferno di zoo, sarebbe. Il giudice sorrise. Sì, disse. Proprio così.

DUE PAROLE

Prendiamo un capolavoro letterario sulla crudeltà gratuita: arancia meccanica di Burgess. Esiste un motivo alla presentazione narrativa di tanta violenza, ovvero che la redenzione forzata del male attraverso le istituzioni, forse ancora più insensibili e crudeli, doveva trascendere la soglia della decenza, subendo l’annichilimento del libero arbitrio. Un tenebro contrappasso. Tanto violenta era stata la libertà del protagonista e tanto cieca sarà l’anestesia borghese della terapia curativa (la terapia Ludovico). Il senso alla violenza era dunque cagionato da un motivo narrativo. Ma in meridiano di sangue, qual è la ragione di tanta efferatezza? Qual è il motivo per cui viene presentata la spietatezza della comitiva? Perché Mc Carthy si è sforzato di riempire un decennale lavoro di raccolta storica sulle origini del crudo West con un’ambientazione a dir poco violenta? La critica sembra essersi scontrata per lungo tempo su questo romanzo, senza finora riuscire a stilare verdetto preciso. Probabilmente non ci riuscirà mai. Meridiano di sangue ciondola dalla nomea di più grande romanzo contemporaneo americano a sceneggiatura da b-movie splatter hollywoodiano. Aiuta sicuramente il silenzio dell’autore (cosa che peraltro, ora, condivido anche io) che fu perentorio sul lasciare voce alle sole opere. Meridiano di sangue non ha, in fondo, nulla di originale. Se il giudice può ricordare il mistico Kurtz, se il pugno asciutto e assetato e visionario sembra erede della mano di Steinbeck, se gli inseguimenti per chilometri nella polvere si sono visti in centinaia di altre scritture, perché questo libro dovrebbe essere degno di nota? (E lo è!)

Io credo che la forza evocativa dell’autore sia un doloroso ritorno alle origini umane. Più precisamente alle leggi naturali. Il romanzo di Mc Carthy strizza più l’occhio alla filosofia che alla storia. Evitando di scucire una banale sinossi (reperibile d’altronde ovunque) mi soffermo un attimo sulla simbologia iniziando con una semplice domanda. La figura del giudice Holden, è un personaggio reale? Chi o cosa può rappresentare? Se il romanzo non è ascrivibile a un percorso formativo (il ragazzo nasce già brutale, prima ancora di unirsi alla compagnia, non ha insomma nessuna necessità di ricevere iniziazioni particolari). Si potrebbe quindi pensare a una cattiveria primigenia, che accompagna l’umanità dal suo ventre. L’homo homini lupus, forse. Personalmente infatti ho letto il testo come un vero e proprio ritorno alla nostra Essenza, un viaggio nella sofferenza e nella solitudine. Nella fredda consapevolezza del volere del mondo. I passaggi filosofici, o perlomeno filosofeggianti, sono tutti di appartenenza al giudice, figura più che centrale nel romanzo. Si trovano, qui a là nel testo, come piccole perle scintillanti che emergono da un carnaio rosso, un teatro di carni macellate o putrefatte. La cattiveria non sembra nemmeno essere prerogativa del popolo americano poiché tutti gli uomini che partecipano attivamente alla guerra commettono delle atrocità (si stagliano chiarissime due immagini per capire la potenza d’urto del romanzo: l’acquisto dei due cuccioli da parte del giudice per gettarli dal ponte e la scena dei Delaware che sopprimevano infanti locali come polpi sullo scoglio). Una volta data la propria interpretazione alla simbologia si potrebbe allora abbozzare – improvvisare – anche un’interpretazione di chi o cosa rappresentino l’idiota, il ragazzo e, infine, l’orso ballante. Personaggi che sembrano di corredo uno all’altro. Il rapporto fra tutti gli interlocutori è sempre mercenario, accessorio, mai sincero. I banditi diventano patrioti o fuorilegge a seconda della necessità imposta. Senza però variare la monolitica anima omicida che posseggono. Le uniche eccezioni sembrano appunto essere i tre legami principali che si sviluppano nel testo: il binomio giudice idiota, il rapporto giudice ragazzo e il rapporto (brevissimo) fra l’orso danzante e la ragazza. Non sembra insomma esserci nessuna pietà a livello umano, solo puro opportunismo. Il ragazzo è il testimone (che scarrozza al collo una collana di orecchie umane senza saperne il motivo). Ed è qui che probabilmente si spiegano gli interrogativi che ponevo. Il giudice è la coscienza parlante del ragazzo, quel grillo collodiano che costringe il ragazzo a fare i conti con il proprio destino: quello di essere brutale. E nel teatro dell’orrore non c’è tempo per nascondere la realtà. Il ragazzo, saturo ed ebbro di violenze, ci prova. Avvia una vita borghese. Ma fatidicamente il giudice si ripresenta come un lontano vizio abbandonato e mai del tutto sopito. Qui sta il dolore della ragazza che soccorre l’orso ferito al petto (sic, si spara in petto a un orso danzante). È l’ingenuità che conta di salvare le apparenze, l’intrattenimento ha da proseguire. Non c’è scampo, insomma, per fuggire dalla solitudine e dallo spettacolo inscenato dall’uomo, costretto e soggiogato al suo stesso volere di essere artefatto.