La strada larga e polverosa tace, zittita dalla canicola. Ai suoi lati gli argini verdi di un paio di metri di prato distanziano i portoni rotondi delle abitazioni che si rispecchiano simmetricamente in tenui colori pastello. Un paio di abbeveratoi ricavati da tronchi scavati dissetano i motori dei calessi, cavalli dal fiocco rosso che penzola ai paraocchi. I volti imbruniti degli abitanti ci trasportano in un altro continente. Non fosse per la vecchia cittadella nascosta nel cuore dei vicoli, Viscri sarebbe un perfetto e pittoresco paesino dell’America latina. Ci si arriva svoltando per Bunești, dalla strada che congiunge Sighișoara a Rupea, lungo un paesaggio disseminato di minuscole abitazioni rom. La tranquillità che tutela questo posto cela una chiesa fortificata risalente al dodicesimo secolo difesa da un piccolo porticato poco più alto di un metro. Ci aggiriamo al suo interno, dove troviamo una torre legnosa e una piccola cappella dai soppalchi storti e dalle panchine inclinate, troppo serrate fra loro per ispirare pratica religiosa. A Criț, poco più avanti, troviamo la stessa atmosfera. Qui la strada principale, sempre sabbiosa, conduce a un grande spiazzo dove il tempo è immobile e i vecchi oziano all’ombra del bazar principale, posizione incantevole per osservare il lento andirivieni degli abitanti. Ragazzini schioccano fruste, un vecchio signore dallo sguardo languido giace abbandonato su una sedia mentre uno stormo di mosche interroga la sua carcassa. Sembra solo voler aspettare la fine con dignità e saluta orgoglioso i passanti. “Ce faci?” chiede Mattia “Come va?” e lui, come molti della sua età, risponde con un espressione universale di rassegnazione, una smorfia e spallucce a dire: “Così”. E Sighișoara? Direi bugie a non parlare della sua bellezza, del suo prestigio (d’altronde è la città che diede i natali a Vlad Țsepeș, l’impalatore) o della sua vivacità. Ma oggi onoriamo l’ozio, i deboli e gli stanchi, e come i nostri incontri, piacevolmente, sorvoliamo.