Fëdor Dostoevskij – Povera gente

E tutti sanno, Varin’ka, che la povera gente è peggio di uno straccio e non può essere stimata da nessuno, per quanto se ne scriva! per quanto ne scrivano costoro – dico, questi imbrattacarte! – il povero sarà come è sempre stato. E perché sarà sempre come prima? Ma perché il povero, secondo loro, non deve aver nulla di intimo; e di dignità, macché!

DUE PAROLE

Opera prima dell’allora ventiquattrenne scrittore. Opera, infatti, pregna di talento ma assai acerba, ai limiti della reverenzialità nei confronti dell’illustre passato letterario russo. Parè chiara, se non schiacciante, l’allusione al cappotto di Gogol con quei richiami che sanno tanto di devoto plagio d’encomio, quanto un ufficioso passaggio di consegne di un peso culturale che il giovane talento sapeva già di possedere sopra le proprie spalle.Romanzo in forma epistolare fra una giovane e fragile fanciulla ed il suo vecchio e ambiguo amico. Ambiguità qui volutamente intesa come emotiva, visto che i limiti delle conversazioni sfiorano volontariamente non solo i temi e i modi della benevolenza ma anche quelli del sentimento reciproco. Varinka e Makar intavolano un carteggio che dura un lasso temporale di una decina di mesi, raccontandoci e raccontandosi reciprocamente le proprie disgrazie. Una vita da povera gente, di una povertà non solo economica ma anche morale. Una tragedia completa che abbraccia l’ambito umano su più dimensioni. Quella sociale, quella economica e quella culturale. “La povertà non è un vizio”, sostiene il protagonista, così come la condizione umana non dovrebbe (condizionale d’obbligo) essere una scelta. La tragedia si conclude con il fallimento più alto del vecchio scrittore. Vedere la bellezza della desiderata e amata varinka abbandonarsi al volere del becero Bykov. Un risvolto che ho sentito curiosamente paragonare alla leggenda di Europa, circuita e poi rapita da Zeus travestito nei panni di un pacifico toro.