John Steinbeck – Furore

Gli uomini uscirono dalle case e fiutarono l’aria pungente e calda e si coprirono il viso per non respirarla. Poi dalle case uscirono i bambini, ma non cominciarono a correre e strillare come avrebbero fatto dopo un temporale. Gli uomini erano appoggiati alle staccionate e guardavano il mais rovinato, ormai quasi secco, con appena un po’ di verde che trapelava dalla pellicola di polvere. Gli uomini restavano in silenzio e si muovevano appena. Poi dalle case uscirono le donne e si misero accanto ai loro uomini – per capire se stavolta gli uomini sarebbero crollati. Le donne studiavano di nascosto la faccia degli uomini, perché il mais si poteva anche perdere, purché si salvasse qualcos’altro. I bambini indugiavano lì accanto, disegnando nella polvere con le dita dei piedi scalzi, e i bambini sondavano in silenzio gli uomini e le donne per capire se sarebbero crollati. I bambini sbirciavano la faccia degli uomini e delle donne, e tracciavano nella polvere linee meticolose con le dita dei piedi scalzi. I cavalli si accostavano all’abbeveratoio e sfioravano col muso l’acqua per liberarla dalla polvere. Dopo un po’, le facce attente degli uomini persero la loro stupefatta perplessità e si fecero dure e rabbiose e ostinate. Allora le donne capirono che erano saldi e che non sarebbero crollati. Allora chiesero: Che facciamo? E gli uomini risposero: Non lo so. Le donne capirono che andava tutto bene, e i bambini capirono che andava tutto bene. Le donne e i bambini sapevano dentro di sé che non esistevano disgrazie insormontabili se i loro uomini restavano saldi. Le donne rientrarono in casa per sbrigare le faccende, e i 21 bambini si misero a giocare, dapprima con discrezione. Con il passare delle ore, il sole si fece meno rosso. Divampava sulla terra ricoperta di polvere. Gli uomini sedevano sulla soglia di casa; giocherellavano con pezzetti di legno o sassolini. Gli uomini sedevano immobili – pensando, interrogandosi.

 

 

DUE PAROLE

“The Grapes of Wrath” prosegue con tre diversi tipi di narrazione: quella della famiglia, quella pittoresca della natura e della realtà americana e quella monolitica e impersonale della condizione umana. A proposito di “condizione umana” il meccanismo è molto simile al medesimo romanzo, la condizione di schiavitù dell’uomo viene perpetrata dalla natura e non dal partito. Un Sistema, sempre un Sistema, che in Steinbeck è più umano e rurale, forse per questo anche più crudele. La siccità a braccetto con la banca, con la società che dipende dalla natura e che costantemente la violenta. La siccità e la miseria avanzano insomma assieme al progresso. L’uomo è impassibile di fronte a questa marcia. Si può accostare la tecnologia al capitalismo? Per questo Steinbeck fu tacciato di conspirazionismo in America? Beh, in un Sistema come quello Americano direi sicuramente di sì. L’uomo frustrato perso nel Sistema. Un Sistema funzionale e logico, non irreale come quello kafiano, ma altrettanto difficile da capire e ancor più da destabilizzare. Chiede un mezzadro: “Ma dove finisce questa catena? A chi possiamo sparare?” E la risposta: “Non lo so. Forse non c’è nessuno da ammazzare. Forse non c’entrano gli uomini. Forse, come hai detto tu, è la proprietà la causa di tutto”.
Un libro che trasuda ribellione e resistenza.
“Diffida del tempo in cui gli scioperi cessano mentre i grandi proprietari sono ancora vivi – perché ogni piccolo sciopero soffocato dimostra che il passo è in atto. Ed ecco cosa puoi sapere per certo: terribile è il tempo in cui l’Uomo non voglia soffrire e morire per un’idea, perché quest’unica qualità è fondamento dell’Uomo, e quest’unica qualità è l’uomo in sé, peculiare nell’universo.”
Incisivo aver letto furore proprio nel periodo in cui anche la mia famiglia sta organizzando il suo piccolo esodo. “Uno ha un sacco di roba da fare quando deve andarsene da un posto,” disse Al, come lo capisco, ora. Ma non voglio soffermarmi su queste superficialità personali. Furore è molto di più. Un libro talmente vasto e perfetto da risultare quasi insormontabile, non solo per la sua mole. C’è, senza dubbio, molta artigianalità nella prosa di Steinbeck, parlo di colpi d’effetto studiati e accordati con la massima precisione, ma c’è anche una gigantesca ed incolmabile urgenza umana, quasi che l’autore abbia scritto con la stessa fame e disperazione dei suoi protagonisti.
I protagonisti, per l’appunto, sono la famiglia Joad, una nuova e rivisitata versione malavogliana (anche se alcuni ci videro – e direi comprensibilmente- un nuovo esodo ebraico) della loro esperienza. Un libro formativo e un libro di viaggio, un libro storico e un libro politico. Steinbeck tracima in ogni dove, come la piena biblica che inonda la famiglia nell’ultimo capitolo. Non è un caso questo continuo richiamo alla spiritualità – nel mio sunto e nella trama del romanzo- poiché, a tutti gli effetti, “furore” parla di un viaggio negli inferi. Fra i vari messia di turno, prima che il figlio Tom trovi l’illuminazione divina del pensiero rivoluzionario e collettivo, v’è il predicatore Casy. Il martire Casy che si ostina a non credere a professarsi tutto fuorché un predicatore. E la gente che continuamente chiede lui di esercitare la vecchia professione. Il simbolo di una completa disillusione, della Perdita completa della speranza, che invece si ostina a vivere e perdurare negli altri.
Ciò che rimane costante e non scalfibile è la statura morale, purché densa di povertà, della famiglia, dei suoi dogmi. Dice il padre dopo la morte del nonno: “Certe volte la legge non la puoi seguire. Se ci tieni alla dignità non la puoi seguire. Capita un sacco di volte”. È un’asserzione forte e propria degli strati sociali più bassi, più “semplici”, che basano la loro vita –a ben vedere- sopra la ferrea dottrina dell’onestà. Respingere la fame in un mondo di sciacalli. Di questo, infine, si tratta. Di quella forza morale necessaria a non diventare lupo in un mondo di lupi. E la famiglia Joad lo fa stoicamente, infallibilmente. Posta di fronte, miglio dopo miglio, piaga dopo piaga, a quasi tutti i drammi dell’esistenza: la fame, la siccità, il freddo, la morte, la violenza, il sopruso, l’usura, la miseria, la vergogna, la tristezza, il dolore e via dicendo. Questa impassibilità è forse coadiuvata dalla gerarchia legnosa e ancestrale della famiglia. Ognuno al loro posto: le donne ai mestieri e al focolare, gli uomini ai motori e alla fatica, i bambini all’educazione e i vecchi al buonsenso. Compiti rigidi, quasi militari. Sopra tutti, collagene multiforme, la figura di “Ma’” anima e cervello della famiglia. (suggerirei una letturina del romanzo ai/alle varie sostenitori delle quote rosa). Sulle sue spalle ruota l’interno mondo. Mondo che tutti cercano di ricostruire da capo, con l’unione delle famiglie in Marcia verso ponente che diventa una famiglia sola, un’unica entità umana indistinguibile, votata a sopravvivere. Il perfetto incubo americano. Quale paese migliore dell’America per ospitare questa storia di fame conquista ambizione e ricostruzione occidentale? Al pari de “la peste” di Camus, e altre opere affini per potenza, “Furore” insegna I fondamenti della vita e dell’esistenza avvalendosi di una piaga come strumento di avvicinamento alla natura umana.
E parlando di grandi scrittori si noti anche la vicinanza (forse anche l’eredità) con Thoureau, che tanto suona come un manifesto alla disobbedienza civile.
“Un uomo può tenersi la terra finché ha di che mangiare e pagare le tasse; questo può farlo. Sì, può farlo finché un giorno non gli va male un raccolto, e a quel punto deve farsi prestare i soldi dalla banca. Ma, vedete, una banca o una società questo non possono farlo, perché non sono creature che respirano aria, che mangiano carne. Respirano profitti; mangiano interessi sul denaro. Se non lo fanno, muoiono esattamente come morireste voi senza aria, senza carne. È triste ma è così. Non ci si può fare niente.”
Paragonando l’obbligatorietà della scelta migratoria con i tempi moderni, attuali, le cose suonano oltremodo attuali. Come gli abitanti della California accoglievano in malo modo gli “Oakie”, così anche noi europei diffidiamo e temiamo i grandi flussi africani (o est-europei, fino qualche anno fa). L’astio con cui ogni locale fatica a digerire un proprio simile scaturisce I soliti rigurgiti zeppi di ignoranza, gonfiati dagli stereotipi e dalla paura. Un esempio.
“Cristo, che branco di disperati!” “Gli Okie? Sono tutti dei disperati.” “Cristo, io non me la fiderei a passare il deserto con un catorcio come quello.” “Be’ , tu e io abbiamo il cervello. Quei maledetti Okie non hanno cervello e manco cuore. Non sono esseri umani. Un essere umano non ce la farebbe a vivere come loro. Non ce la farebbe a vivere con quella sporcizia e quella miseria. Quelli mica sono tanto meglio delle scimmie.”
L’impersonalità dei padroni, I grandi latifondiari americani, è quanto di più lontano ci sia dal sentimentalismo padronale del buon Levin in Anna Karenina. Lui che sperimenta e prova il significato del sudore mietendo i campi con i suoi mezzadri, si abbassa alla visione della vita Contadina. I padroni dipinti da Steinbeck invece sono uomini privi di generosità in quanto deprivati a loro volta di sentimenti umani (come la carità o l’empatia) da entità insensibili come banche e finanziarie.
“Furore”, un termine centellinato nel testo, l’ultimo stadio formativo di un bestia indemoniata e spossata: la grande bestia della massa di uomini privi di cibo e dignità.
Il finale in crescendo è una maestosa sinfonia che culmina con uno degli orgasmi letterari più forti che abbia avuto. La figura della puerpera che allatta il vecchio in un nuovo labile rilancio di vita, l’ultima flebile e forse inutile speranza, un rantolo di generosità e umiltà, come a dipingere eternamente questi valori portandoli per sempre nella coscienza collettiva dell’umanità.

 

INFO UTILI

12 ore di lettura, qualcosa simile, molto molto lungo.