Juan Rodolfo Wilcock – Il reato di scrivere

Uno che adopera il telefono senza sapere come funziona un telefono, deve per forza credere che dentro ci sia un piccolo nume, maligno o benevolo secondo i casi, genericamente chiamato elettricità, di cui i telefonisti sono i modesti sacerdoti. Da colui che si fa operare alla milza ma non sa assolutamente a che cosa serve la milza, possiamo soltanto aspettarci che, se l’operazione riesce bene, ogni volta che vede passare il chirurgo egli si getti per terra a baciargli i piedi (e infatti così accade). Il quale chirurgo non adorerà magari gli altri chirurghi, ma sarà a sua volta molto umile davanti al pilota di un aereo, e giunto il momento opportuno non disdegnerà, nemmeno lui, il baciamani, e se in volo il baciapiedi. Perché tutti sono oggi specialisti: qualche cosa, la sanno pure fare.

DUE PAROLE

La raccolta di articoli che Juan Rodolfo Wilcock pubblicò su “il Mondo” e “la voce repubblicana” intorno alla fine degli anni sessanta, chiamato “il reato di scrivere”, dà già idea di quale sia l’approccio al mondo della letteratura da parte dell’autore, ovvero un immondo ed utopico sforzo di avvicinamento a canoni di bellezza immacolati ed irraggiungibili, che egli stesso difende a spada tratta e che, se soltanto sfiorati dalla feccia odierna, non consentono a quasi nessun testo di concedersi il ben che minimo paragone. Citato in descrizione come “un vero e proprio programma di distruzione di vanità letteraria”, il testo arriva a demolire ogni minima velleità Borghese di quei giovani autori che si cimentano nella scrittura. Così come, ed assai più ferocemente, l’affermato autore contemporaneo già apprezzato da critica e pubblico. Critica appunto, che Wilcock tramortisce irrispettosamente. Ne ha per tutti durante le sue riflessioni stampate, e leggendo gli articoli fuori contesto storico temporale, si finisce facilmente per evincerne un certo snobismo intellettuale (tipico fra l’altro degli intellettuali di ogni epoca). Il testo risulta comunque piacevole e interessante. Innanzi tutto per la fotografia dell’editoria sessantottina italiana, e in secondo luogo per perle ed aforismi di spiccata brillantezza. Si legga “Alcuni editori, i più ricchi, comprano a volte i diritti di un’opera per assicurarsi che essa non venga pubblicata. Non bisogna tuttavia pensare che una simile situazione sia eccessivamente malinconica; la commedia dell’arte è per definizione allegra. Né c’è motivo di doglianza: l’ingiustizia è la giusta punizione di chi si offre al giudizio dei suoi inferiori.”