Patrick Radden Keefe – Non dire niente


I Troubles, per contro, si erano conclusi con un’impasse. L’accordo del Venerdì Santo aveva stabilito una «divisione dei poteri», ma si aveva la sensazione che nessuna delle due parti fosse uscita davvero trionfante. Erano stati apportati alcuni cambiamenti di facciata: il RUC era stato rinominato Police Service of Northern Ireland (PSNI); la discriminazione strutturale da cui erano sfociate le proteste per i diritti civili era perlopiù svanita. L’Irlanda del Nord era sempre stata affezionata alla teatralità della commemorazione storica. Eppure non c’era stato un processo ufficiale per tentare di capire in che modo commemorare, o anche solo comprendere, i Troubles. Questo senso di nauseante incertezza era stato aggravato dal rifiuto di Gerry Adams di ammettere la propria partecipazione all’IRA. Se alcuni nell’Irlanda del Nord si stavano interrogando sui rischi di confessare il loro ruolo nel conflitto, le continue negazioni di Adams lasciavano intendere che non era affatto sicuro parlarne. «Oh terra di parole d’ordine, strette di mano, cenni e occhiolini» recitava una poesia di Seamus Heaney sui Troubles intitolata Whatever You Say, Say Nothing (Qualunque cosa dici, non dire niente). C’era la sensazione che, nonostante il popolo guardasse con grande entusiasmo al futuro, gli intrighi sulfurei del passato avrebbero continuato a permanere.

DUE PAROLE

Il racconto dei troubles irlandesi incorniciato dall’emblematica storia del rapimento e dell’omicidio della madre Jean McConville, che facendo da trait d’union fra lo sbobinarsi degli avvenimenti, mantiene alta la tensione narrativa dalla cima alla coda del libro. Un libro probabilmente imparziale, che cerca di mantenersi super partes fornendo tonnellate di note, purtroppo non bibliografiche. Una finestra su un mondo, su trent’anni di storia che hanno lasciato una ferita aperta ancora sanguinante. Ne riporto un secondo estratto:
Secondo uno studioso, la «vittima ideale» dei Troubles non era un combattente ma un civile passivo.  51 Per molti, Jean McConville era la vittima perfetta: vedova, madre di dieci figli. Per altri non era affatto una vittima, ma una combattente «per procura» che era andata incontro al suo destino. Ovviamente, anche ammettendo, per ipotesi, che McConville fosse stata un’informatrice, non esiste un universo morale in cui il suo assassinio e la sua sparizione siano giustificabili. Possibile che il modo in cui percepiamo una tragedia venga sempre influenzato dalle nostre opinioni? L’antropologo Claude Lévi-Strauss una volta osservò che «per la maggior parte della specie umana, e da decine di migliaia di anni, l’idea che l’umanità includa ogni individuo sulla faccia della terra non esiste. Questa designazione si ferma al confine di una tribù o di un gruppo linguistico, a volte perfino ai margini di un villaggio».  52 Nel caso dei Troubles è intervenuto un fenomeno conosciuto come «benaltrismo». Basta pronunciare il nome di Jean McConville perché qualcuno dica: «E allora la Bloody Sunday?». Al che voi potreste ribattere: «E allora il Bloody Friday?», ottenendo in risposta: «E allora Pat Finucane? E allora la bomba al La Mon? E allora il massacro di Ballymurphy? E allora Enniskillen? E allora il bar di McGurk? E allora… E allora… E allora…».