Primo Levi – Il sistema periodico

Non avevamo dubbi: saremmo stati chimici, ma le nostre aspettazioni e speranze erano diverse. Enrico chiedeva alla chimica, ragionevolmente, gli strumenti per il guadagno e per una vita sicura. Io chiedevo tutt’altro: per me la chimica rappresentava una nuvola indefinita di potenze future, che avvolgeva il mio avvenire ni nere volute lacerate da bagliori di fuochi, simile a quella che occultava il monte Sinai. Come Mosè, da quella nuvola attendevo la mia legge, l’odine in me, a attorno a me e nel mondo. Ero sazio di libri, che pure continuavo ad ingoiare con voracità indiscreta, e cercavo un’altra chiave per i sommi veri: una chiave ci doveva pur essere, ed ero sicuro che, per una qualche mostruosa congiura ai danni miei e del mondo, non l’avrei avuta a scuola. A scuola mi somministravano tonnellate di nozioni che digerivo con diligenza, ma che non riscaldavano le vene. Guardavo gonfiare le gemme in primavera, luccicare la mica del granito, le mie stesse mani, mi dicevo dentro di me: “Capirò anche questo, capirò tutto, ma non come loro vogliono. Troverò una scorciatoia, mi farò un grimaldello, forzerò le porte.”

DUE PAROLE

Cosa sia questo libro lo dice l’autore stesso nell’ultimo, meraviglioso capitolo che racconta la storia di un atomo di Carbonio. “Il lettore, a questo punto, si sarà accorto da un pezzo che questo non è un trattato di chimica. La mia presunzione non giunge a tanto (…). Non è neppure un’autobiografia, se non nei limiti parziali e simbolici in cui è un’autobiografia ogni scritto, anzi, ogni opera umana. Ma storia in qualche modo è pure.”
E allora, cos’è, questa storia? Beh, è innanzi tutto un insieme ordinato di racconti (autobiografici e no) che hanno come team o protagonista centrale un elemento chimico alla volta. Levi compone un capolavoro scientifico e stilistico, un libro memorabile che ha il potere di unire la letteratura alla scienza, in un modo leggero, direi quasi con gli stessi occhi del bambino eternamente innamorato della sua passione, del suo gioco, della scoperta del mondo. Levi porta la chimica nella vita e viceversa. È un libro talmente potente, che rimpiango di non averlo letto in età adolescenziale, ho il timore che mi avrebbe fatto innamorare della disciplina, ma forse esagero. C’è comunque una leggerezza, una gioviale e sana voglia di descrivere l’universo, capendolo, che è a dir poco contagiosa. Non vi è mai morale borghese però. Gli assunti e i passaggi simbolici sono sempre asciutti, della stessa lucidità che ha concesso a un uomo di descrivere la cosa più lontana dall’umanità. Si prenda questo scampolo, dove Levi porta lo Zinco fra i mortali e ce lo mostra sotto la luce di negromante e scrittore:
“Sulle dispense stava scritto un dettaglio che alla prima lettura mi era sfuggito, e cioè che il così tenero e delicato zinco, così arrendevole davanti agli acidi, che se ne fanno un solo boccone, si comportava invece in modo assai diverso quando è molto puro: allora resiste ostinatamente all’attacco. Se ne potevano trarre due conseguenze filosofiche tra loro contrastanti: l’elogio della purezza, che protegge dal male come un usbergo; l’elogio dell’impurezza, che dà adito ai mutamenti, cioè alla vita. Scartai la prima, disgustosamente moralistica, e mi attardai a considerare la seconda, che mi era più congeniale. Perché la ruota giri, perché la vita viva, ci vogliono le impurezze, e le impurezze delle impurezze.”
Che purezza, che prosa colta, invidiabile e leggiadra!