Agota Kristof – Ieri

Naturalmente, non sono morto. Uno che passeggiava m’ha trovato steso nel fango, nel bel mezzo del bosco. Ha chiamato un’ambulanza, mi hanno trasportato all’ospedale. Non ero congelato, soltanto zuppo. Avevo dormito una notte nel bosco, ecco tutto. No, non ero morto, avevo solo una broncopolmonite quasi mortale. Sono dovuto restare sei settimane in ospedale. Quando sono guarito dalla mia malattia ai polmoni mi hanno trasferito nell’ala psichiatrica, perché avevo voluto uccidermi.
Ero contento di restare in ospedale perché non volevo tornare in fabbrica. Lì stavo bene, si occupavano di me, potevo dormire. Per mangiare potevo scegliere tra diversi menù. Potevo persino fumare nel piccolo salone. Potevo fumare anche quando parlavo con i miei medici.
– Non si può scrivere la propria morte.
È lo psichiatra che mi ha detto così, e sono d’accordo con lui perché, quando si è morti, non si può scrivere. Ma, dentro di me, penso di poter scrivere qualunque cosa, anche se è impossibile e anche se non è vera.
In genere m’accontento di scrivere nella testa. È più facile. Nella testa tutto si srotola senza difficoltà. Ma, una volta scritti, i pensieri si trasformano, si deformano, e tutto diventa falso. A causa delle parole.
Dovunque mi trovi, scrivo. Scrivo mentre vado verso il bus, scrivo nel bus, nello spogliatoio degli uomini, davanti al mio macchinario.
Il guaio è che io non scrivo ciò che dovrei scrivere, scrivo qualunque cosa, cose che nessuno può comprendere e che nemmeno io comprendo. La sera, quando ricopio quello che ho scritto nella mia testa durante la giornata, mi domando perché ho scritto tutto ciò. Per chi, e per quale ragione?

 

DUE PAROLE

Lame affilate, coltelli. Schiaffi in faccia, fulminei. Così le frasi della Kristof, così la sua prosa asciutta e arida e serrata. Prosa che ho scoperto essere una necessità più che un vezzo, poiché la scrittrice si forzò a comporre in francese (che bello sarebbe poter leggerla in lingua “originale”) piuttosto che nella sua lingua originale, l’ungherese, e proprio per questo, forse, arrivò ad estremizzare delle composizioni di questo genere, contemporaneamente infantili e violente. C’è molto de “il grande quaderno” in questo libro. E penso, da quanto possa immaginare, che ci sia anche molto di autobiografico, di una vita vissuta da esule, da rifugiata. Un odio e un amore altamente conflittuale verso la propria nazione d’origine che genera drammi e complessi carnali altrettanto passionali. “Ieri” è una storia piena di incesto e contraddizione, di sofferenza interiore e di dicotomia temporale. Il passato, burrascoso e malvagio e incerto e violento, che si contrappone a un presente statico, abulico, borghese e provinciale. La lotta per la vita e per la sopravvivenza contro la povertà contro l’agio di una classe sociale moscia ed appiattita dal lavoro in fabbrica. Il passato riemerge iracondo con strappi di edipica perdizione. L’uccisione del padre, l’amore per una madre ladra e puttana, l’amore ancor più incestuoso per la sorellastra, il destino beffardo già scritto che dal passato si trascina come un mostro fino in uno spento presente. “Ieri” è un piccolo capolavoro di intensità.

 

INFO UTILI

100 pagine circa. Poco più di un’ora di lettura intensa.
Edizione ET Scrittori, Einaudi. ISBN 9788806229207
In copertina un quadro di Istvan Farkas