Walter Mosley – Volevo uccidere Johnny Fry

Decisi di uccidere Johnny Fry un mercoledì, ma il motivo me lo diedero una settimana prima. Quasi mi vergogno della mia decisione di togliergli la vita. Proprio scontata, non c’è che dire. Tutto cominciò il giorno in cui pranzai con Lucy Carmichael al Petit Pain Cafè su Amsterdam Avenue, vicino all’Ottantesima. Voleva mostrarmi il suo portfolio perché sperava la mettessi in contatto con Brad Mettleman, un agente che lavorava con le gallerie d’arte e amava approfittare delle fanciulle con gli occhi azzurri e capelli color grano.

 

DUE PAROLE

Una pillola di rivalsa sociale rivestita dalla patina anti borghese della pornografia. Non sono un amante del genere, l’ultima lettura in tal senso è stato “il delta di Venere” che credo avesse sollevato in me più o meno lo stesso senso di noia. Il porno, a differenza dell’erotismo, non risulta quasi mai proibito se propinato in abbondanza. La storia è quella della folgorazione del protagonista, un modesto uomo di colore che ha sempre vissuto una vita piatta e borghese e che, grazie all’inaspettata visione della fidanzata sodomizzata lascivamente dal suo priapico amante, si abbandona ad una specie di oblio dei sensi ed inizia rocambolesche vicissitudini sessuali che lo portano a svuotarsi, rivelandosi al nudo. Una parabola evangelica, quasi. Una Paolo di Tarso folgorato dalla vista di una penetrazione anale. Con il conseguente abbandono completo del superfluo e della dimensione di bugia e comodità che spesso noi esseri umani tendiamo a crearci. Nonostante alcuni sprazzi di introspezione freudiana, il libro non brilla per lirica e narrativa ma procede con una serie di colpi di scena (l’autore arriva dalla scuola giallista) di stampo pornografico in una continua esagerazione dell’umano perlustrabile. Dicevo, altresì, della rivalsa sociale. Mi è sembrato (e forse sono io ad aver dato troppo peso alle frasi che includevano una sorta di giustificazione al colore della pelle del protagonista-autore) che la trama ritmica del romanzo, non vorrei dire la colonna portante, sia una specie di rivincinta populista, dove il solito povero nero subissato dalla società riesce a dimostrare la sua purezza, pur con l’ausilio di un mezzo narrativo assai d’impatto, e lavarsi infine la coscienza. Non c’è nulla di sporco, nel puro Cormel. Fedele fino al momento del trauma, trasparente per pensiero ed azione, onesto. Addirittura sincero con il mondo e con se stesso nelle sue confessioni verso il prossimo. Questa insostenibile dicotomia mi è sembrata troppo stridere per una scelta di stile così estrema.