Si affrontano due squadre enormi. La Francia inizia con Barthez in porta, Thuram, Blanc, Desailly, e Lizarazu dietro, quindi Karembeu, Deschamps e Petit in mezzo al campo, Zidane e Djorkaeff a supporto di Guivarc’h. Noi rispondiamo con Pagliuca fra i pali; Costacurta, Bergomi e Cannavaro centrali; Moriero e Maldini sulle fasce; Dino Baggio, Di Biagio e Pessotto in mezzo al campo; io e Del Piero punte.
DUE PAROLE
“Chiamatemi Bomber” racconta, fa raccontare, Christian Vieri (aiutato da Mirko Graziano). Giocatore amato e mai compreso al quale mi ero aggrappato nell’infelice mondiale Koreano. Nonostante le pecche cui questa autobiografia abbonda, e sono parecchie, debbo comunque lodarne la trasparenza e la cristallinità. Ovvio, non conosco il protagonista personalmente, posso quindi solo immaginare che il tono scanzonato, la dialettica povera e la più che semplice scelta espositiva, corrispondano in fondo a ciò che Bobo ha sempre portato agli occhi del grande pubblico: grandissima genuinità. Il racconto si divide in tre filoni: le squadre in cui l’attaccante ha militato, le esperienze in nazionale e la sua vita privata. Si parte con i racconti dell’infanzia che arrivano dalla lontana Australia (non sapevo, e mi ha colpito, del bilinguismo di Vieri). Passano poi per l’incredibile crescita professionale che ha portato il calciatore ai massimi livelli mondiali e termina con le avventure amorose che hanno costellato i suoi successi extra calcistici, ma pur sempre d’effetto. Il ragazzone scanzonato tiene a sottolineare due cose, in maniera quasi ossessiva (un po’ come fanno i ragazzini messi sotto analisi): la sua indefessa vocazione professionale, il sedicente attaccamento al sacrificio, e la fedeltà verso l’unica donna che sembra essere riuscita a controllarlo: ovviamente la madre. A conferma di quanto dico mi torna in mente, come sempre quando parlo di sport, quello che diceva David Foster Wallace in un libro sempre qui censito: “Ovvio, negli sport maschili nessuno parla mai della bellezza, della grazia, o del corpo. Gli uomini possono professare il loro amore per uno sport, ma questo amore deve sempre essere espresso e rappresentato nella simbologia della guerra: eliminazione e avanzamento, gerarchie e rango e posizione, statistiche maniacali, analisi tecniche, fervore tribale e/o nazionalistico, uniformi, frastuono collettivo, bandiere, petti percossi, facce dipinte, ecc. Per ragioni che non sono totalmente chiare, molti di noi trovano i codici della guerra più sicuri di quelli dell’amore.” Insomma, una lettura piacevole ma davvero scarna e priva di ogni ulteriore spunto se non l’eco di grandi percosse sul petto. Consiglio di accompagnare con video di youtube di ogni partita descritta. Per i tifosi nostalgici, croce e delizia.