Jonathan Franzen – Le correzioni

Ora dormiva, in silenzio, come se stesse fingendo. Il sonno di Alfred era una sinfonia di singulti, fischi e suoni strozzati, un’epopea della ronfata. Enid era un haiku. Restava immobile per ore e poi spalancava gli occhi come se avesse premuto un interruttore. Talvolta, nell’alba di St. Jude, nel lungo minuto che la radiosveglia impiegava per sostituire una cifra, l’unica cosa che si muoveva nella casa era l’occhio di Enid. La mattina del concepimento di Chip, Alfred aveva soltanto creduto che Enid facesse finta di dormire, ma quando era stata concepita Denise, sette anni piú tardi, Enid fingeva sul serio. Alfred, raggiunta la mezza età, l’aveva spinta a quei veniali sotterfugi. Dopo i primi dieci anni di matrimonio si era trasformato in uno di quei predatori troppo civilizzati di cui si sente parlare negli zoo, la tigre del Bengala che non ricorda piú come si uccide, il leone impigrito dalla depressione. Per attirarlo, Enid doveva essere una carcassa immobile e incruenta. Se si dimostrava attiva, allungando una mano o mettendo la coscia sopra quella di Alfred, lui la spingeva via e nascondeva la faccia; se si azzardava a uscire dal bagno nuda, Alfred distoglieva lo sguardo, come imponeva la Regola Aurea di chi per primo odiava farsi vedere senza vestiti. Solo la mattina presto, aprendo gli occhi davanti alla piccola spalla bianca di Enid, Alfred si avventurava fuori dalla tana. L’immobilità e la discrezione di quel corpo, il suo respiro lento, la sua pura vulnerabilità di oggetto lo spingevano all’assalto. E lei, sentendo quella zampa felpata sulle costole e quel respiro famelico sul collo, si accasciava con l’istintiva rassegnazione della preda («Ammazzami e facciamola finita»), anche se in realtà la sua era una passività calcolata, perché sapeva che la passività lo eccitava. Lui la prendeva come un animale, e in un certo senso era cosí che lei voleva essere presa: in una muta e reciproca intimità di violenza. Enid non apriva nemmeno gli occhi. Spesso non si voltava neppure dal fianco su cui era sdraiata, ma si limitava ad allargare l’anca, sollevando il ginocchio con un riflesso vagamente proctologico. Poi, senza mostrarle la faccia, Alfred se ne andava in bagno, da dove emergeva, lavato e sbarbato, per trovare il letto già fatto e sentire la caffettiera gorgogliare al piano di sotto. Dal punto di vista di Enid poteva essere stato un leone a straziarla voluttuosamente, e non suo marito; o forse le era entrato nel letto uno degli uomini in uniforme che avrebbe dovuto sposare. Non era una vita meravigliosa, ma una donna poteva nutrirsi di illusioni e del ricordo (che ora, stranamente, sembrava a sua volta un’illusione) dei primi anni, quando Alfred era pazzo di lei e la guardava negli occhi. La cosa piú importante era mantenere il silenzio. Se non si parlava mai dell’atto, non c’era motivo di smettere di compierlo finché non era incinta di nuovo, e persino dopo la gravidanza non c’era motivo di non ricominciare, purché non lo si menzionasse mai.

DUE PAROLE

I coniugi Alfred ed Enid, i figli Chip, Denise e Gary. Il piccolo della provincia americana St. Jude. E le correzioni che tutto ritoccano. Parto dal presupposto che questo romanzo sia una stesura complessa, leggibile e godibile sotto diversi aspetti (nonostante la prolissità dell’autore). La trama si svolge posando di volta in volta la voce narrante su uno dei personaggi della famiglia, e si dipana in maniera intrecciata, di una stilistica sublime. Nonostante i numerosi cambi di ambientazione e prospettiva (che sono poi le cose che conferiscono le diversità che menzionavo poco fa) il testo in sé si può riassumere come un tentativo di sugellare uno scontro generazionale ben preciso, persino forse un momento socio economico nitidissimo della storia degli Stati Uniti. In uno dei passaggi cardinali del finale, l’autore abbozza una breve descrizione di ciò che regala il titolo al libro: “La correzione, quando alla fine arrivò, non fu lo scoppio improvviso di una bolla di sapone, ma un lento declino, un anno di piccole perdite sui mercati finanziari più importanti, una contrazione troppo graduale per fare notizia e troppo prevedibile per danneggiare seriamente qualcuno a parte gli sciocchi e i lavoratori poveri.” Enid e Alfred infatti incarnano, nei modi e nei pensieri, ma soprattutto nel borghesissimo stile di vita, un periodo economico fatto di sicurezze, ansie, stolidità e fissazioni. Così come parsimoniosamente centellinano ogni emozione ed esperienza educano e catechizzano i figli. Una vita di privazioni, di rinunce. Il perno di questa infelicità inespressa è Alfred, la figura paterna che contagerà anche il figlio maggiore Gary, sofferente di depressione cronica. La storia di Alfred, brillante ingegnere ferroviario dedito alla ricerca di brevetti nel buio della sua cantina, impersona il fallimento della classe economica modesta ed arrendevole. La poca lungimiranza che gli impedisce di diventare ricco (il sogno Americano è spesso espresso in funzione del reddito e della posizione sociale), simile al modo in cui l’uomo esercita la sua paternità e la sua sessualità. Ma le confessioni sono anche un vero e proprio consulto, uno sfogo della coscienza. Ogni personaggio arriverà a trovare la sua liberazione dopo un lungo calvario (direi anche di matrice religiosa) con il suo confessore antagonista di turno. Proverò goffamente ad elencarli per protagonisti. Alfred con la gioia trovata nel diventare imbecille e privo di ogni responsabilità personale, scevro dal pensiero così magnificamente descritto da Franzen “Oh, il mito, l’infantile ottimismo delle riparazioni! La speranza che gli oggetti non si logorassero mai! La sciocca fiducia nel fatto che ci fosse sempre un futuro in cui lui, Alfred, non solo sarebbe stato vivo ma avrebbe anche avuto sufficiente energia per aggiustare le cose. La tacita convinzione che alla fine tutta la sua frugalità e la sua passione di conservatore avessero uno scopo, e che un giorno, svegliandosi, si sarebbe trasformato in una persona completamente diversa, con tempo ed energia infiniti per occuparsi di tutti gli oggetti che aveva conservato, per mantenere tutto funzionante, tutto a posto”. Chip, con la Lituania, con l’ex signore della guerra Gitanas, con la storia di un paese che incarna perfettamente il miraggio della ricchezza per stupidi investitori americani. La storia di una padre paese che si ripercuote sul figlio più debole e insicuro (e forse anche più amato): “Fu quindi tipico della sua sorte che Chip non avesse ancora finito di godersi i primi due mesi a Vilnius quando sia suo padre sia la Lituania caddero a pezzi”. Denise con la realizzazione della sua sessualità. La storia bicefala con marito e moglie, la perversione di voler essere amata da entrambi i genitori e la volontà di essere utile a qualcuno, desiderata da qualcuno. Gary e la sua depressione, con una moglie e tre figli (l’identica proiezione di Aldred nel futuro) e lo sfogo, tanto meschino quanto indispensabile, della sacra cena di Natale. Poi st. Jude, un paese perfetto per la vicenda: il patrono delle cause perse, per dirla come Denise. E infine l’altro polo del romanzo: Enid. Con la libertà ritrovata in se stessa e per se stessa dopo la perdita del marito (in realtà della sola perdita di una sua presenza ossessiva). Andata vicina a confessarsi con il dottore della crociera e la signora che a sua volta piangeva nel suo grembo la perdita dell’amata figlia, è lei – in fondo – l’unica vera vincitrice e sopravvissuta del romanzo. Come una giovane America che rinasce e resiste. L’unica anima che non viene corretta, poiché, appresa finalmente la lezione suprema del romanzo, “Ciò che rendeva possibile la correzione era anche ciò che la condannava all’insuccesso.”