Dilijan 22 Agosto

Scusate se insisto, ma mi fa troppo ridere aver tagliato i capelli proprio qui, lontano da casa. È importante il concetto. Fare qualcosa parte di una routine in un posto sconosciuto mi affascina. In fondo siamo dentro questi grandi meccanismi anche quando ce ne dimentichiamo. Come in un grande cosmo, la ruota dei nostri satelliti di noia e abitudini e gioie e felicità si ripete con costanza ellittica. Precisa, ognuna con i suoi tempi e soprattuto le sue rivoluzioni. Il viaggio stesso è una routine. E, nel viaggio, le sue ripetizioni. E, nel diario, le sue ripetizioni. Colazioni abluzioni unghie pensieri defecazioni. Se ci si ferma troppo a pensarci sopra si rischia di non uscire più di casa per poter studiare le traiettorie. Ad ogni modo ora che sono un figurìno posso spingermi un po’ più a nord. Rimane la barba, ormai selvaggia e irsuta, ma ho deciso di non radermi fino alla fine, e così faccio. Anche questa è libertà e ognuno, almeno una volta nella vita, dovrebbe provare a lasciar crescer qualcosa senza controllo, siano baffi, rancori, figli o capelli. È l’unico modo per deviare, seppur di pochissimo, le ellissi a cui accennavo poco fa. Il Mattia Leonardi al momento non ha di questi problemi. Partito con i baffi, sta arrivando a parificare tutto il grugno. I mustacchi non lo li ha mai accorciati e son perfetti. Fumando le stortine che si spengono facilmente, si aggiusta i peletti a fuoco ad ogni riaccensione. Un po’ di odore di pollo nel naso e un profilo invidiabile. Da poco però ha esaurito il tabacco, i bei tempi son finiti anche per lui. Le destinazione della mattinata è il monastero di Goshavank, abbastanza turistico anche se per nulla di passaggio. Gli dedichiamo un occhio veloce e scendiamo poi per Dilijan, che qualcuno paragona alla svizzera d’armenia. Io di svizzero non ci trovo proprio nulla se non che le persone ci guardino in modo sospetto, come se fossimo pronti a gettare una carta per terra, persino nei bar. Scendendo dal monastero scorgiamo degli autostoppisti lungo la strada. Ci fermiamo per scarrozzarli, sono una famiglia belga, madre padre figlia, in giro da cinque settimane per l’Armenia. Le due femmine sono enormi, copiose. Dobbiamo spostare la Nuvoletta del Matteo Angelino e, salito il padre, un tizio smilzo e canuto con la faccia da viaggiatore esperto, comprimo le due ingombranti passeggere accanto a lui. Appoggiata una spalla alla madre la insacco sopra la figlia che, nel frattempo, stipata nel mezzo, comincia ad avere problemi di ossigeno. “Tutto ok?” Chiedo. Sbattono le ciglia come a dire “alla grande”. Chiusa la porta a stagno libero il sedile di fronte e mi ci siedo di traverso in modo da parlare un po’ con la famigliuola dei soliti argomenti: mete, clima, nazionalità. Guida il Mattia Leonardi. Offriamo loro dell’acqua e intanto lì torturiamo con le canzoni peggiori di Celentano. Improvvisamente e nel mezzo del nulla chiedono di essere scaricati sulla strada e rispettiamo le richieste. Sarei proprio curioso di sapere dove siano adesso. Senza intenerirci troppo per l’improvviso addio, troviamo una deviazione verso Parz Lich, che già stavamo cercando. Mettendo a dura prova gli ammortizzatori raggiungiamo il laghetto immobile nel mezzo della foresta. Mangiata una zuppetta di pollo deliziosa nell’unico locale lungo lago ci concediamo un po’ di riposo all’ombra degli alberi. Dentro suonano Celentano. Rifocillati ci buttiamo sulla strada, meno brillanti di un Kerouac, ma pur sempre sulla strada, realizzando in questo esatto momento di averci passato qualcosa come sei ore di guida, oggi. Arriviamo a baciare il lago di Sevan e a costeggiarlo. Brilla d’azzurro e di gabbiani e gli alti monti che arrivano precipitosi dalla sponda nord frenano in lontananza proprio all’incontro con l’acqua creando gigantesche zampe di gatto terrose sovrastate da una coperta di nuvole bianche. Il pezzo più curioso è un lungo rettilineo dove ad ogni tre o quattrocento metri delle solitarie persone sostano al bordo della carreggiata. Vedendoci passare fanno tutte lo stesso gesto, allargano le braccia, sorridono, distendono le braccia, tutte allo stesso identico modo. Pensiamo ci vogliano segnalare qualcosa, poi pensiamo vogliano venderci qualcosa, poi ad un incidente, poi alla richiesta di un passaggio, ma non sembra nulla di tutto questo. E’ stupido ammetterlo, ma siamo ancora qui a pensare se, in realtà, non stessero semplicemente chiedendo un fortissimo abbraccio.

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