Ashtarak 21 Agosto

Arrivati in cima alla montagna, non ci resta che scendere, e scendere davvero. Siamo insomma al giro di boa e, temporalmente parlando, siamo diretti verso il rientro, il viaggio ha sorpassato la sua metà. Abbiamo portato il filo che ci lega nel punto più lontano, da oggi è giunto dunque il tempo di cominciare a riavvolgerlo, con zelo, ridare corpo alla matassa, sempre attenti a tessere la nostra storia. Come i nuotatori in virata anche noi oggi ci siamo presi un bel respiro e la giornata è stata meno impegnativa del solito. Guidati dalla nuvoletta Golden Virginia del Matteo Angelino ci siamo recati ad Ashtarak per visitare due monasteri fra i più belli. Difficili trovarli sulle strade, i due grezzi e oscuri edifici si nascondono sulle pendici di un immenso burrone che lacera la terra per centinaia di metri di dislivello. Siamo usciti da Yerevan ripercorrendo l’arteria che ci aveva condotto qui da Tbilisi pochi giorni fa e, vedendoli dal lato oscuro, o in senso contrario, il Mattia Leonardi è riuscito a spiegarmi perché quei monti ci avessero lasciato talmente incantati. Sono curve di una donna, della nostra bramata donna, sono ripetizioni di anche, essenze di lombi, seni, parabole materne, sinuose mammelle scevre da vergogna e peccato lunghe promontuose labbra di una terra accogliente. L’austerità e il rigore dei monasteri suona quasi come un gelido monito, un sordo rintocco di campana a quella eterna e pacifica guerra: dove la natura regna fertile e feconda, la religione dell’uomo sterilizza. Essendoci persi, come al solito, invertiamo l’ordine di visita e, in mattinata, siamo prima a Saghmosavank e poi a Hovhannavank. Incontriamo un pullman di turisti italiani in comitiva e io ho una gran voglia di provare a descriverveli come farebbe Gadda ne la “cognizione del dolore”, parodiando quel gruppo organizzato che così tanto riassume la nostra esterofila mostruosità quando ci spingiamo, tutti, oltre i confini del nostro paese. Con l’immenso rispetto e l’ammirazione che nutro per il nostro grande scrittore, vi chiedo di lasciarmi provare. Ne uscirebbe una cosa simile a quella che trovate in calce al diario di oggi. Sarebbe interessante proseguirla, ma l’ho appuntata poco dopo il loro incontro e non ho il tempo necessario a svilupparla, vi spiego tra un attimo il perché. Di ritorno a Yerevan prestissimo, ci dedichiamo a scoprire le parti di città che ancora non abbiamo visitato, sempre con parsimonia, come fosse un buon libro da gustare in tranquillità, rimandandone la fine. Abbiamo voglia di sentire un po’ di musica durante gli spostamenti e ci fermiamo ad acquistare l’antologia della figura pop più famosa in Armenia dopo quella di Gesù Cristo: Adriano Celentano. Poi, presa l’occasione, decido di sottopormi ad una cosa che mi piace tantissimo fare all’estero, farmi tagliare i capelli. Incontrato per caso un negozio di taglio maschile, entro e mi siedo sulla poltrona. Giunge dalle retrovie un piccolo signore, mingherlino e sulla settantina. Fuma e ha le mani con i calli, segnate. Senza aprire bocca mi fa un cenno del viso. Gli indico la mia zucca, le varie zone, l’altezza a occhio e croce e il tizio parte spedito. Mi impressionano sempre le persone così sicure nel loro lavoro, nella vita in generale. Sono spregiudicate, ma mi piacciono, ostentano la sicurezza del maestro, o dello spaccone, poca è la differenza. Si tratta pur sempre di cambiare l’immagine di una persona. Il vecchietto mi congeda con una spruzzatina di profumo ed un ciuffo anti regime e se adesso non ho il tempo per scrivere come Gadda dei borghesi è proprio perché il Mattia Leonardi, bene, benone, si è messo sulle scale del nostro ostello a sistemarmi i capelli con la forbice della cucina della nostra padrona di casa. Sono un fiore, non temete, nonostante le imperfezioni, sono ancora qui a stimare tutte le persone che hanno sicumera.

“Fotografavano.
Bardati di tutto punto contro i nefasti raggi solari, nascondevano gli occhietti pettegoli dietro lenti fotocromatiche che passavano, ai più, per un blu Briatoriano. Distesi, in divine pose articolate alle giunzioni più adatte all’estetica, dall’incavallamento delle gambe con un polso di sopra poggiato, al più avorio dei sorrisi avariati, posavano come adoni per ricordi digitali che nessun parente avrebbe mai poi preso la briga di osservare. Nascosti come vampiri all’aglio ultravioletto si muovevano in branco, contigui, smarrendosi solo al bagliore del lisergico colore del vetro, sotto al quale si soffermavano, prendendosi il rischio di smarrirsi, ad immortalare nei loro discutibili canoni estetici delle parti di muro, dei selciati, dei sottotetti e soprattutto, delle icone raffiguranti i santini che già disponevano nei loro armadietti privi di polvere…”

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