Emmanuel Carrère – Yoga

Eppure, dall’alto della mia infima esperienza, penso che si possa arrivare alla meditazione attraverso un sentiero meno impervio, un sentiero banalissimo, accessibile a tutti, e che la tecnica per imboccarlo si impari in cinque minuti. Consiste nel sedersi e nello stare per un certo tempo immobili e in silenzio. Tutto ciò che accade nel lasso di tempo in cui stiamo seduti, immobili e in silenzio, è meditazione. Ho cercato spesso di darne una buona definizione – la più esatta, la più semplice, la più esauriente possibile –, e ne ho trovate parecchie che tirerò fuori nel corso del racconto, ma per cominciare questa mi sembra la migliore, perché è la più concreta, quella che incute meno soggezione. Lo ripeto: la meditazione è tutto ciò che accade dentro di noi nel lasso di tempo in cui stiamo seduti, immobili, in silenzio. La noia è meditazione. Il male alle ginocchia, alla schiena, al collo è meditazione. I pensieri parassiti sono meditazione. I gorgoglii nello stomaco sono meditazione. L’impressione di perdere tempo a fare una boiata pseudo-spirituale è meditazione. La telefonata che prepari mentalmente e anche la voglia di alzarti a farla è meditazione. La resistenza che opponi a quella voglia è meditazione – cedere invece no. Tutto qui. Niente di più. Qualunque cosa in più è di troppo. Se lo si fa regolarmente, per dieci minuti, venti minuti, mezz’ora al giorno, ciò che accade nel lasso di tempo in cui si sta seduti, immobili e in silenzio, cambia. Cambia la postura. Cambia la respirazione. Cambiano i pensieri. Cambiano perché tutto, in ogni caso, cambia, ma cambiano anche perché li si osserva. Quando si medita, non si fa e soprattutto non si deve fare nient’altro che osservare. Osservare l’affacciarsi alla coscienza dei pensieri, delle emozioni, delle sensazioni. Osservarne il dissolversi. Osservarne le fondamenta, i punti d’appoggio, le linee di fuga. Osservarne il passaggio. Non fare corpo con loro, non scacciarli. Seguire la corrente senza lasciarsi travolgere. A forza di farlo, è la vita stessa a cambiare. Sulle prime non ce ne rendiamo conto. Abbiamo la vaga impressione di essere sulla soglia di qualcosa. Qualcosa che lentamente prende forma. Ci distacchiamo un poco, soltanto un poco, da ciò che chiamiamo Sé. Ma quel poco è già molto. È già moltissimo. Ne vale la pena. È un viaggio. All’inizio del viaggio, dice una storia zen, la montagna in lontananza sembra una montagna. Nel corso del viaggio, la montagna cambia continuamente aspetto. Non la riconosciamo più, al suo posto c’è un’immagine illusoria, non sappiamo più verso che cosa ci stiamo dirigendo. Alla fine del viaggio, ecco di nuovo la montagna, che però non ha niente a che vedere con quello che scorgevamo da lontano tanto tempo prima, quando ci siamo messi in cammino. Questa è davvero la montagna. Finalmente la vediamo. Siamo arrivati. Ci siamo. Ci siamo.

DUE PAROLE

Un libro o una lettura su cui ho poco da dire. Un romanzo quasi intimo, personale. Carrere lascia le vite altrui per dedicarsi a un tema profondo e doloroso come quello della depressione. Passando dalla descrizione di un’esperienza fatta partecipando a un seminario di meditazione, l’autore alterna la didascalica spiegazione delle tecniche meditative, delle filosofie orientali e dei concetti legati alla profonda volontà di volersi conoscere nei meandri esistenziali al problema irrisolto dei migranti, dei disadattati sociali, degli emarginati finanche degli attentati jihadisti a Charlie Hebdo e alle giornate di elettroshock subite in ospedale per recuperare la sua salute mentale. Il libro congiunge appunto un’anima leggera ad un’apertura verso un problema intimo. Nato probabilmente come pamphlet o addirittura servizio giornalistico sullo yoga, il testo si evolve in un complesso e molto più intricato flusso perché, proprio come spiega la filosofia adottata dal Carrere a suo stile di vita, tutto muta, tutto è costantemente se stesso e il suo contrario.