Friedrich Dürrenmatt – Le panne


Ciò che nell’uomo borghese, nell’uomo medio appariva come un caso, in seguito ad un incidente, o come semplice necessità di natura, come una malattia, come un’occlusione di un vaso sanguigno a causa di un embolo, come un’escrescenza maligna, si presentava qui come un necessario risultato di natura morale, qui finalmente la vita si compiva in tutta la perfezione e la coerenza di un’opera d’arte, qui si vedeva la tragedia dell’uomo, qui essa splendeva in tutta la sua luce, prendeva una sua forma immacolata, giungeva alla sua perfezione (gli altri: – Basta! Basta! ), anzi, si poteva tranquillamente dire: solo all’atto dell’emissione della sentenza che faceva dell’imputato un condannato, la giustizia celebrava il suo trionfo, perché non vi era nulla di più alto, di più nobile, di più grande del momento in cui un uomo viene condannato a morte. Così era avvenuto.

DUE PAROLE

I semi del lascito kafkiano hanno germogliato in fiori meravigliosi. E fra i Camus e i Nabokov annovero per certo anche quest’opera, tanto breve quanto incisiva. In un surreale tribunale composto da vetusti e arzilli commensali (e quando si parla di surreale e di tribunali Kafka diventa più di un elefante nella stanza) si inscena il processo borghese, borghesissimo, del venditore Alfred Traps, rimasto appiedato, accudito e poi condannato, a causa della rottura della sua sportiva autovettura (emblema per eccellenza del suo stato Borghese) in un’anonima località Svizzera. L’ambizione, altissima, dello scrittore sembra quella di mostrarci l’utopica idea di giustizia umana. Non solo nel suo senso più alto, ovvero quello filosofico, ma anche in quello più basso e popolare, cioè burocratico (si direbbe anche pratico: senza un colpevole non è possibile scoprire un assassinio, non è possibile far trionfare la giustizia). Si torna dunque, appositamente, a una fase infantile dell’uomo: la spensieratezza del gioco inscenato dai vecchi commensali confonde l’imputato trasformandolo da cittadino di successo a colpevole individuo. La colpa di Traps è così candida da rivelarsi quasi inconfutabile. Nel processo di comprensione del proprio crimine (che si svolge con la certezza ontologia cattolica dell’esistenza di una colpa primigenia) l’improvvisato imputato si abbandona con felicità al destino. Non servirà infatti nemmeno la mano del boia per l’esecuzione, messa teatralmente in atto dal protagonista stesso con un’impiccagione. E su questo tema si è riflettutto più che su ogni altro. La chiave del testo sembra proprio capire se l’opera denuncia la sordità borghese, il vanto con cui l’imputato si confessa scherzosamente colpevole di una colpa non commessa, per puro desiderio di primeggiare sul prossimo (dice l’amico Michele, “Traps non si sarebbe svegliato comunque il mattino dopo per la vergogna, se avesse saputo che la scelta della sua morte non fosse che per propria mano”), oppure se siamo di fronte a un individuo che ha realizzato il paradosso della giustizia, ha fatto il suo ingresso nel mondo degli “adulti” e, realizzando l’irrisolvibilità della purezza giuridica, della fallacità del giudizio umano insomma, non abbia visto che la morte come unica via di salvezza contro la follia.