William Hazlitt – L’ignoranza delle persone colte


Le persone che hanno meno idee di tutti sono gli scrittori e i lettori. È meglio non sapere né leggere né scrivere, che non saper fare altro che questo. Quando si vede un fannullone con un libro in mano, si può essere quasi certi che si tratta di una persona senza né forza, né voglia di stare attenta a ciò che gli accade intorno, o dentro la testa. Di un tale individuo si può dire che porta il suo giudizio ovunque con sé, in tasca, o che lo lascia a casa, sullo scaffale dei libri. Ha paura di avventurarsi in qualunque ragionamento, o di fare una qualsiasi osservazione per proprio conto che non gli venga suggerita passando meccanicamente lo sguardo su alcuni caratteri leggibili; si ritrae dalla fatica di pensare che, per mancanza d’esercizio, gli è diventata insopportabile; e si accontenta di un continuo, noioso succedersi di parole e d’immagini abbozzate, che gli riempiono il vuoto della mente. L’istruzione troppe volte è in contrasto col senso comune; un surrogato del vero sapere. I libri vengono usati meno come “occhiali” per guardare la natura, che come imposte per tenerne lontana la forte luce e la scena mutevole da occhi deboli e temperamenti apatici.

DUE PAROLE

Piccoli saggi caustici. Accanimento (un po’ stucchevole) contro gli acculturati. In un gioco che oggi si è popolarizzato e giganteggia nella retorica e nei talk show: inveire contro chi, ingenuamente o meno, la cultura prova a farla. Si passa anche dal tentativo di dimostrazione della divisione fra lavoro mentale e lavoro manuale (omaggiando, come sempre, l’azione in favore delle riflessioni). Si passa poi a una divertente digressione sul “fare testamento”, probabilmente il capitolo più pratico dell’opera, e chissà se il buon de André l’abbia mai letto prima di comporre la sua graffiante versione sul tema. Si critica poi l’effemminatezza e le istituzioni (passaggi che scricchiolano senza l’ausilio del contesto culturale dell’epoca). E ci si riscaglia, infine, nuovamente sulla superiorità intellettuale, sulla solitudine degli intelligenti. Le riflessioni sulla paura della morte iniziano con un attacco degno delle migliori orazioni pubbliche di Severino, e con queste mi piacerebbe chiudere l’articolo. “Forse la migliore cura per la paura della morte è riflettere che la vita ha un principio oltre che una fine. Ci fu un tempo in cui non eisstevamo: e se questo non ci preoccupa, perché allora dovrebbe impensierirci se verrà un tempo in cui cesseremo di esistere?”