Giuseppe Pontiggia – Vite di uomini non illustri

Nasce per parto podalico il 2 luglio 1932 nella clinica Regina Elena di Trento. Sua madre gli ricorderà spesso, nel corso degli anni, i dolori che le ha provocato una nascita simile. Ma solo a cinquantun anni capirà quanto quella anomalia abbia influito sulla sua crescita. Glielo ripete, mentre lo tiene immerso nell’acqua calda della vasca, il 2 luglio 1983, la sua amica di Merano, che gli ha chiesto di rivivere l’evento. La sua mano, artigliandogli la nuca, gli affonda la testa. Picchiando con il mento contro la maiolica, lui riesce a riaffiorare. Ma di nuovo lei nuda, le mammelle enormi, incombendo con il corpo ridondante sugli spruzzi, preme le mani sopra le sue spalle e lo sospinge contro il fondo. Bolle d’aria gorgogliano vicino agli occhi dilatati. Sente che la presa si allenta e, sollevando la testa, emerge per respirare, mentre lei gli grida: «Stai nascendo! Devi vivere!» Le onde escono dalla vasca, lei perde improvvisamente l’equilibrio e precipita sulla schiena. Allora, issandosi su di lui, gli rituffa la testa che si dibatte. Questa volta l’acqua gli è entrata nella bocca spalancata, il respiro gli rantola in gola, le vene si gonfiano. Puntando le mani e i piedi si rovescia su un fianco, trascinandola a sua volta sott’acqua, ma con un colpo potente delle anche lei lo scaglia contro la parete liscia e cerca di riaffondarlo mentre si afferra, ansimante, al bordo della vasca. «Non sei ancora nato!» gli grida. «Sì!» geme lui. «Lasciami respirare!» «No, tu non riesci a respirare, perché i piedi sono usciti, ma la testa è ancora dentro, capisci?» «Sì» mormora lui, mentre pensa: “Che cosa sto facendo?” «Ti senti strozzare proprio quando stai per uscire» continua lei, ripiombandogli sulla schiena con la sua massa carnosa. «Senti che ti sto uccidendo. E che cosa vorresti fare?» «Ucciderti!» grida lui. «Ecco, tesoro, è questo che volevo farti dire!» Si aggrappa alle sue spalle, ma lui non lascia la presa del bordo. «Tu volevi uccidermi solo per salvarti. Non hai colpa.» «No!» esclama, chiudendo gli occhi. «Non ho nessuna colpa.» «E neanche lei ha colpa, lei voleva solo farti vivere e tu non l’hai uccisa. Avete vinto tutti e due.» «Sì.» «Ripetilo con me» insiste lei. «Abbiamo vinto tutti e due.» «Sì.» Cerca piano di divincolarsi da quella carne molle e calda. «Abbiamo vinto tutti e due.» Lascia penzolare la testa sul tappeto di gomma. Alle sue spalle un tonfo accompagnato dagli spruzzi, si è girata sulla schiena, slitta sul fondo. Ne approfitta per scavalcare l’orlo della vasca e rotolare sul pavimento. «Ma che cosa fai?» «Non abbiamo finito?» le chiede rialzandosi a fatica e allargando le palme sulle piastrelle. «Sì, se sei nato senza colpa. Dillo.» «Sì, sono nato senza colpa» le dice, sdrucciolando lungo la parete e scivolando adagio sul pavimento.

DUE PAROLE

Di libri così ne avrò letti a bizzeffe. Quello che in un’altra pagina chiamavo bestiario, un libro infine molto molto simile alla recente lettura de “la sinagoga degli iconoclasti” o, perché no, anche (ma forse un paragone un po’ azzardato) ai clinici casi di Oliver Sacks, anch’essi di recentissima fruizione. Tutto nasce, o almeno si sviluppa, da quello che considero la cima di questo genere – quello delle epigrafi – ovvero l’antologia di Spoon River e, sarò noioso, ma mi è assai difficile allontanarmi da questa analogia. I “casi” descritti da Pontiggia sono spassosi, divertenti, dissacranti per le caratteristiche umane più colpevoli. Invidia, avarizia, lussuria, sembra quasi una parata di vizi capitali che si somatizzano, cristallizzandosi, nella vita dei vari protagonisti di turno. Esempio di incarnazione “Assunzione lenta e graduale dei cibi, prima liquidi e poi solidi, dopo due giorni di nutrizione endovenosa. E colloqui con il cappellano militare don Cerioni. Gli confessa che la scoperta della imperfezione fisica l’ha gettato nell’angoscia. L’altro chiede stupefatto: «Per due diottrie?» No, non è per le diottrie, gli risponde. Non sa come spiegarlo. Non credeva che il corpo potesse tradirlo. La mente non gli interessa, ma il corpo è tutto. «Questa è la malattia vera» gli dice don Cerioni. Si alza dal letto e passeggia in pigiama su pavimenti lucidi. A volte cammina nel cortile, sotto gli alberi, lungo finestre che si susseguono uguali come le feritoie di una fortezza. Al crepuscolo, quando i rumori che giungono dall’esterno si affievoliscono nell’aria chiara, gli sembra che il cortile diventi una prigione. «È la tua testa che è una prigione» gli dice don Cerioni. E quando gli confessa che la sua diffidenza verso il mondo è aumentata, l’altro gli risponde sorridendo che lui scambia il mondo per se stesso ed è per questo che diffida. Decide di non confessargli più niente.”. Quindi: nota di merito per aver scritto un insieme di racconti già letto e riletto altrove ma che comunque mi ha intrattenuto, istruito e divertito. Certo si nota la mano dell’abile artigiano che esercita il suo stile, questo testo è sicuramente più artefatto del vivissimo “nati due volte”. Impeccabile, ad ogni modo, l’utilizzo sublime della terza persona singolare al tempo presente come via di racconto, probabilmente la vera architrave stilistica delle opere. Un tributo alla normalità e alla piccolezza. Un messaggio importante, a ricordarci che il mondo –tutto sommato- è composto da personaggi quasi mai illustri, ma ugualmente importanti, indispensabili per comporre un ecosistema di diversità, di emozioni, di idee e di passioni. Come ci ha insegnato Tolstoj, la storia è e sarà fatta soprattutto da questa gente.