Gunnar Gunnarsson – Il pastore d’Islanda

Aveva solo una specie di vuoto nel petto, una nostalgia che non si lasciava fissare né chiarire. Era perché doveva abbandonare per qualche giorno le terre abitate o perché a ognuno di quei commiati lo assaliva il pensiero che un giorno avrebbe dovuto separarsene per sempre? L’uomo si aggrappa alle sue cose, si aggrappa a se stesso e alle sue cose al di là della morte, teme che la vita gli sfugga tra le mani – è questa la più reale di tutte le realtà, la più fragile di tutte le fragilità, la più infinita tra le cose infinite. Teme la solitudine, che è condizione stessa delle sua esistenza. Teme di non essere più circondato dal prossimo e forse d’essere dimenticato da Dio. Una piccola consolazione è che, se tutto va bene, sarà sepolto e rimarrà ancorato alla terra per sempre. Dall’aldilà spera di avere una bella vista sul suo villaggio, impossibile immaginare nulla di diverso. E mentre è lì, Benedikt non può fare a meno di annusare scontento qualche fiocco di neve – fiocchi che cadono dolci e sperduti, come se lì non avessero nulla da fare, e a cui finora non ha voluto prestare attenzione.

 

DUE PAROLE

C’è molto del percorso spirituale che porta il credente (in questo caso, credo, cristiano) nella discesa e nell’abbandono verso il fondo della propria solitudine. La dimensione che costruisce Gunnarsson è del tutto mistica ed ancestrale. Una parabola evangelica, quasi, tramutata in viaggio spirituale. Un viaggio trino, divino. L’uomo come Dio di se stesso, come mistero religioso da scoprire e, ancor più coraggiosamente, da affrontare. La compagnia che parte per il viaggio è una simbiosi metaforica di un essere vivente animale che include la stolidità, la resistenza, la fiducia e la speranza. Sembra importi poco della sfera umana all’autore. Non fosse per la materia religiosa, uomo e natura si mischierebbero in un solo essere. Eppure la contaminazione cattolica non può essere ignorata. Direi anzi sia l’architrave più ingombrante del romanzo. Non solo per l’ambientazione natalizia (nella formula del cristo – padre figlio e spirito santo, ovvero il pastore Benedikt, il muflone Rocca e il cane Leò – il peccatore asceta rinasce nel giorno di Natale), ma anche per la trasposizione ancor più sentita del pastore di anime, del predicatore solitario. Sembra esserci una differenza fra l’anima semplice, l’ignara pecora che si perde senza colpa né comprensione nelle lande innevate, contro la volontà dell’essere umano responsabile delle proprie azioni e del proprio operato (siamo al Cristo in esilio nel deserto?). Ed è forse ciò che distingue l’uomo, il divino creato, l’anima, dalla mera bestia pascolante, il “compito” datogli adamicamente da qualcosa di più grande di noi (vedasi la montagna). Dice Benedikt/Gunnarsson “è questo il compito dell’uomo, forse l’unico al mondo: trovare una soluzione. Non darsi per vinto. Rivoltarsi contro il pungolo, per quanto sia tagliente, perfino contro quello della morte, fino al giorno in cui penetrerà nel cuore. Ecco il compito dell’uomo”.