Quarantacinque milioni di italiani che sono stati fascisti per vent’anni e poi non sono più niente: sorci che scappano, impazziti, mentre la nave va a picco! Che affogano a migliaia e a decine di migliaia. La marina e l’esercito in giro per il mondo… E tutta la merda – disse lui – Merda sepolta. Non smuoverla.Ci restai male: e i caduti? E gli atti di eroismo, che pure c’erano stati? Gli dissi: Pensa a Cefalonia.
Ci penso da quarantadue anni – rispose zio Alvaro – Guarda qui, questi segni sulla fronte. Ogni tanto ancora nel sonno io mi ritrovo in quell’orrendo uliveto, Sebastiano! Rivivo tutto: gli spari, la carneficina… Riascolto come su un nastro registrato la voce del tedesco che ci grida: Se c’è qualcuno ancora vivo venga fuori, non ha più niente da temere… L’infame! E poi risento gli spari, e i corpi dei miei compagni sul mio corpo, il loro sangue che scorre addosso a me… – strinse la testa fra le mani – Cosa ne sai, tu, di tutto questo! Tutti quei morti, – disse ancora lo zio Alvaro – sono morti per niente, e il resto è merda: la guerra, il seguito, tutto.
DUE PAROLE
In una prosa che oscilla fra un racconto in prima persona attraverso l’infanzia (romanzo di formazione all’interno del romanzo giornalistico), dei flashback estemporanei negli anni della guerra, ed un secondo racconto in prima persona nel presente, Vassalli sfrutta una leva efficace –ovvero l’ausilio di un cruciale periodo storico- per parlare dell’Italia e, soprattutto, degli italiani. Come già accadde per la lettura de “La chimera”, l’identificazione di un’origine o di uno stereotipo alla base di alcuni nostri cardini culturali meglio spiega la nostra indole, il nostro carattere comune. Sono gli atti, per Vassalli, a determinare un popolo. E grazie alla solidità della storia egli ci distrugge. Fa tabula rasa di ogni persona intorno a sé, cominciando proprio dalla madre (vittima) e dal padre (altresì detto “l’infame autore dei miei giorni”). Oltre alla vanità personale, alla trasformazione del mito demoniaco di un padre tanto burbero quanto comico (e qui i paragoni si sprecano: da Nick Molise di Fante, al padre di “morte a credito”, e a tutti i genitori tiranni della letteratura) c’è a mio avviso anche una duplice funzione d’ingaggio nei meccanismi del romanzo. Lo spiega lo stesso Vassalli quando calca e ricalca la vicenda del giovane commissario Polito, colui che ebbe il compito di accompagnare la consorte del Duce alla galera e, nel tragitto, approfittò violentemente della stessa e in modo ripetuto: una perfetta reinterpretazione dell’Edipo di Sofocle, con il Polito – fedele fascista – che d’improvviso uccide il padre (Mussolini) e vìola la madre, per poi perdere, e infine ritrovare, l’onore del popolo. Questa è l’interpretazione da dare al perfetto balilla, al medio italiano. Quella rapidità d’intuito che ci ha sempre portato al tradimento, alla codardia e al buon’affare. Quella che notoriamente, agli occhi del mondo e dell’Europa, ci ha sempre tenuto (ma ci tiene tuttora) alla larga dalla morale e dall’affidabilità. Sono ripercussioni avvenute sia nell’atomico che nel generico. L’Italia, trainata dal suo condottiero, si è schierata con l’una e con l’altra fazione e, allo stesso modo, è stata pronta ad appendere il suo stesso mentore il giorno dopo che questi si dimostrò incapace di garantire alle altre mignatte una vena dal quale attingere sangue senza troppi sforzi d’orgoglio. Ne è un altro esempio il Re, l’aneddoto della sua pochezza contadina con l’offerta delle uova e la vigliaccheria d’essersi egli stesso sottomesso al bruto di Predappio. E ancora, ne è strepitoso esempio la combriccola di cercatori d’oro che compone la locanda del Genio. Debbo essere più preciso: è la ricerca d’oro la storia fascista, non i cercatori. Il miraggio della sabbia dorata, la pochezza di una ricchezza microscopica, granulare, che con l’avvento della tecnologia e del benessere diventa motivo di ludo da parte di chi, come tutti noi, ha la memoria più corta del suo braccio. Eccolo “l’oro del mondo”, un invisibile e misterioso sogno che scivola nel setaccio come sabbia. E fa bene, il Vassalli, a distruggerci. Perché la verità che esce da quella setacciatura sono le parole di uno dei pochi personaggi intonsi che l’autore salva (oltre alla povera Rosa, vergine segaiola misericordiossa scambiata per becera puttana), forse anche perché difficile da filtrare: la merda. L’indicibile merda di chi ha visto, che piano piano scivola nelle maglie sempre più larghe della mente di questo popolo, così volto alla dimenticanza.
p.s. Sì, il racconto del giovane Sebastiano si svolge fra due paesini B. e O., vicino a N. e poco lontani dal lago, da A., vicina alla pittoresca S. ! Come posso non amare questo libro, questo autore, la mia città natale?