Javier Cercas – L’impostore


Il narcisista vive nella desolazione e nella paura, in un’insicurezza cronica travestita da compostezza (e anche da superbia o da altezzosità), sull’orlo dell’abisso della follia, atterrito dal vuoto vertiginoso che esiste o intuisce dentro di sé, innamorato della finzione abbellente che ha costruito per dimenticare la sua realtà repellente, e per questo non si è blindato soltanto contro il senso di colpa, ma contro quasi ogni sentimento, che cerca di tenere a distanza per timore che lo debiliti, o magari lo distrugga. Per il resto, molti psicologi sostengono che il narcisismo nasca, nell’infanzia, come risultato di una violenza o di una ferita profonda – così come Narciso nasce dalla violenza inaugurale che Cefiso esercita su Liriope – un evento terribile che il bambino non è stato in grado di elaborare, un’umiliazione o un colpo brutale all’autostima, una prematura esperienza dell’orrore vissuta in seno alla famiglia, e che la sua finzione di grandezza non è altro che la maschera della sua pochezza reale o del suo senso reale di pochezza, la cicatrice duratura di quell’umiliazione o di quel colpo brutale o di quell’esperienza dell’orrore. Può darsi. Quel che è certo è che Narciso viene salvato dalla finzione, e che, se Marco è a suo modo un narcisista, le sue menzogne forse lo hanno salvato: Marco è stato un orfano strappato forzatamente a una madre povera, pazza e maltrattata dal marito, un bambino nomade e privo d’affetto, un adolescente infiammato da una rivoluzione fugace e sconfitto da una guerra spaventosa, un perdente nato che, in un determinato momento della sua vita, allo scopo di conquistare l’amore e l’ammirazione che non aveva avuto, ha deciso di inventare il proprio passato, di reinventare sé stesso, di costruire con la propria vita una gloriosa finzione per nascondere la mediocre e vergognosa realtà, di raccontare che non era chi era e che non era stato chi era stato – un uomo assolutamente normale, un membro dell’immensa e silenziosa e codarda e grigia e deprimente maggioranza che dice sempre Sì –, bensì un individuo eccezionale, uno di quegli individui singolari che dicono sempre No o che dicono No quando tutti dicono Sì o semplicemente quando è importante dire No, al principio della guerra spagnola un esaltato combattente quasi infantile contro il fascismo nelle posizioni di maggior rischio e fatica, durante la guerra un intrepido guerrigliero anarchico che operava al di là delle linee nemiche, dopo la guerra il primo o uno dei primi e insensati partigiani contro il franchismo trionfante e un esule politico, una vittima e un combattente contro il nazismo, un eroe della libertà. Queste sono state le menzogne di Marco. Questa è stata la finzione che forse lo ha salvato grazie al fatto che, come a Narciso, per molti anni gli ha impedito di conoscersi o di riconoscersi per quello che era. È chiaro che, se le sue menzogne hanno salvato Marco, la verità che sto raccontando in questo libro lo ucciderà. Perché la finzione salva, però la realtà uccide.

DUE PAROLE

Con un personaggio così gretto e così simile a noi le aspettative su questa lettura si posizionavano a piani altissimi. Ahimè “l’impostore” risulta un libro sì apprezzabile ma gonfio, sfilacciato, posticcio. Cercas cita più volte i suoi fari letterari, riconoscibili anche in assenza di dediche, paragoni o allusioni dirette. C’è evidentemente una volontà di ricalcare quei romanzi e quegli scrittori che hanno portato ai massimi livelli questo genere letterario, affogandoli nella cultura popolare. Su tutti, Capote, il predecessore, e ovviamente Carrere, l’uomo copertina. L’impostore scimmiotta (mi si perdoni il termine) gli scritti più famosi dei due (su tutti: L’avversario) diluendo però i contenuti di una lunga vita di bugie in una altrettanto lunga ricostruzione narrativa di quello che è stato, fu, certamente, un personaggio incredibile. Tanto per faccia tosta che per ardimento. Enric Marco Batlle si spacciò per sopravvissuto dell’olocausto. Violò i cuori della gente, vituperò il tabù della ricorrenza sacra della memoria, per soli fini personali. Per il successo e la vanagloria. Una vicenda inquietante, meschina, di una grettezza ancestrale e che ci permette di osservare negli occhi lo specchio nero della nostra coscienza.