Jean Michel Guenassia – Il club degli incorreggibili ottimisti

Spesso, dopo lungo peregrinare, si erano ritrovati in Francia dov’era stato loro concesso asilo politico. Sempre meglio che nei Paesi da cui li cacciavano. Quella era la patria dei diritti dell’uomo, a condizione che tenessero a freno la lingua e non fossero troppo esigenti. Non avevano niente, non erano niente, erano vivi. Fra di loro, tornava come un ritornello: «Siamo vivi e siamo liberi». Come mi disse un giorno Saša: «La differenza tra noi e gli altri è che loro sono vivi e noi dei sopravvissuti. Quando si è dei sopravvissuti, non si ha il diritto di lamentarsi della propria sorte, sarebbe far torto a coloro che sono rimasti là». Al club, non avevano bisogno di dare spiegazioni o giustificazioni. Erano tra profughi e non avevano l’obbligo di parlarsi per capirsi. Erano tutti sulla stessa barca. Pavel dichiarava che potevano andar fieri d’essere finalmente riusciti a realizzare l’ideale comunista: erano uguali.

 

DUE PAROLE

Un lungo, lunghissimo, passaggio sulla leggerezza che distingue l’essere dal non essere. “Il club degli inguaribili ottimisti” è, per tutti i versi, un romanzo di formazione; il protagonista Michel è un ragazzino non ancora maggiorenne appassionato–ossessionato dalla lettura, che adora giocare a biliardino e cimentarsi con la fotografia. Proprio grazie al biliardino, giunge a scoprire un circolo frequentato da personaggi bizzarri, nonché da illustri intellettuali dell’epoca (siamo negli anni 60, e fra gli avventori si annoverano anche Sartre e Kessel). Gli habitué sono esuli, rifugiati, apolidi o emarginati fuggiti dai paesi comunisti che si trovano presso il bistro “Balto” per dividere le loro pene e, soprattutto, per giocare a scacchi.
La narrazione di Guenassia si sposta fra diversi piani. Tenendo come fulcro il giovane Michel, l’autore racconta le storie della sfera famigliare del ragazzo incrociandole con le vicissitudini personali dei vari frequentatori del club. Usando una perspicace fluidità, il racconto passa dalla prima alla terza persona a seconda delle esigenze. La “purezza” di Michel viene posta in mezzo al turbinio di drammi circostanti. L’ingenuità del ragazzino (che stona contro la sua vasta cultura) viene costantemente dilaniata dalla malignità, scaltrezza o barbarità dei suoi conoscenti. Vi è poco del pensiero di Michel, che sembra quasi un impassibile catalizzatore di tragedie. Il meccanismo ripetuto, infatti, è sempre quello della delusione o scomparsa di un personaggio dopo che questo arriva a condividere o scambiare qualcosa con il ragazzino. Lentamente, inesorabilmente, Michel vedrà sparire il fratello Franck, la sua migliore amica Cécile, il fratello della sua migliore amica Pierre, il suo compagno di banco Nicola, la sua fiamma Camille, suo padre Paul, il gestore del Balto e, infine, lo stesso fragilissimo Saša, vero culmine dell’intero romanzo. La rudezza delle cause con cui tutti questi affetti scompaiono è implacabile, di origine naturale ed irreversibile.
Guenassia danza costantemente fra passato e futuro. Un futuro che non c’è, al momento, o che sembra sparire come le relazioni avviate da Michel, contro un passato che torna a tormentare i presenti. La chiosa, meravigliosa, che può forse essere una piccola lezione di vita, la pronuncia lo stesso Michel dopo il colloquio con il fratello Franck
Quella sera, Franck mi ha raccontato la storia della nostra famiglia, l’incontro dei nostri genitori, la guerra, la sua nascita, la loro separazione per cinque anni, il loro ritrovarsi e il loro matrimonio forzato. Aveva bisogno di vuotare il sacco. Io non ho aperto bocca. I figli non conoscono la vita dei loro genitori. Quando sono giovani, non ci pensano perché il mondo è cominciato con loro. I loro genitori non hanno storia e hanno la brutta abitudine di parlare ai figli soltanto del futuro, mai del passato. È un grave errore. Non parlare del passato li rende simili a dei buchi spalancati.
C’è, inoltre, un messaggio più vasto che sposta leggermente l’ambito del romanzo (formativo, come ho detto) verso l’interesse storico. L’intero circolo è forse paragonabile a quella generazione di delusi (trasformati poi in disincantati) che hanno portato alla post-verità. Il passaggio è cruciale, e riguarda proprio gli anni sessanta. Guenassia fotografa quel momento, l’albore del post-modernismo. Non è un caso la verbosità del testo, non è un caso l’occupazione di Saša durante il regime e non è nemmeno un caso, a questo punto, la scelta di stampo formativo. Come se il percorso di Michel fosse poi quello della sua intera generazione.
Saša arriverà ad imparare a memoria le poesie scritte dalle persone cancellate. (Sì, il richiamo a Bradbury è sentitissimo). Non sono le storie (come dice lo stesso Saša) a sparire, sono le persone stesse. E lui ne era persino l’artefice. In questo senso il romanzo si completa, con tutte le scomparse avvenute nella vita di Michel. Si chiude in una bozza indistruttibile di auto-compensazione e di continuità universale dove, appunto, trova senso e spazio “l’ottimismo” del titolo.
Mi sovvengono –perché no- due poesie, fra i non dimenticati di Saša. Una l’avevo già pubblicata tempo fa in calce ad un altro articolo. È una poesia di Nino Pedretti, penso una delle più belle mai scritte, che riporto ancora:

“Che abbiamo vissuto,
che abbiamo toccato le strade
coi piedi che andavano allegri,
non lo saprà nessuno.
Che abbiamo visto il mare
dai finestrini dei treni,
che abbiamo respirato
l’aria che si posa
sulle sedie dei bar,
non lo saprà nessuno.
Siamo stati
sulla terrazza della vita
fintanto che sono arrivati gli altri.”

Mentre la seconda è di un poeta friulano, Pierluigi Cappello, scomparso recentissimamente, che ho avuto il piacere di conoscere tramite la segnalazione di un amico lontano.

“Io faccio fatica per fare tutto, fatica a vestirmi, Donzel, fatica a mangiare, fatica a dormire e per fare l’amore, fatica a guardare la brina a Febbraio come fosse la prima fiorita erba d’Aprile, fatica a dimenticare che di noi resterà un levarsi nel buio senza fatica un posarsi nel buio col niente davanti, senza aver niente dietro.”

È la vita, per usare un’espressione bellissima di Igor, trovata nel romanzo, dei “tagliati dentro e tagliati fuori”. Di coloro che portano cicatrici profonde, di coloro che lottano o hanno lottato per l’estrema uguaglianza in vita, ma che, come tutti troveranno soltanto con la livella della morte.